Teofilo Folengo e il gioco letterario macaronico

Verso la fine del Quattrocento e negli anni inaugurali del Cinquecento, alla produzione letteraria “alta” si affiancò un genere che prendeva le mosse dalla grande mescolanza linguistica di quel tempo, praticata soprattutto nelle sedi scolastiche e istituzionali, un plurilinguismo che datava fin dalla nascita della letteratura in volgare italiano.

E’ noto il contributo dato dai generi provenienti dalla Francia all’imporsi della lirica in volgare italiano, e appare quindi naturale che le professioni intellettuali dell’epoca si parlassero in varie lingue, ma nel tempo si instaurò anche un intreccio stretto tra il latino e gli idiomi volgari regionali, utilizzato soprattutto dai predicatori, che necessitavano di una lingua che fosse assai comprensibile e tendevano a render il latino decisamente più rozzo.
Anche il conflitto tra il toscano e i dialetti locali agì sui luoghi in cui il latino era ancora praticato correntemente, ovvero nell’ambito universitario, giuridico, medico e tra gli umanisti.
Le occasioni di incontro divenivano anche quelle di scontro scherzoso in cui la familiarità coi classici veniva utilizzata per stravolgerli, spesso in modo parodistico.
Questo gioco, che contrariamente a quello che il corrompimento linguistico potrebbe far pensare, non era affare da ignoranti, ma riposava, al contrario, su una solida cultura classica di chi vi si abbandonava.
Una lingua aggrediva l’altra e viceversa e questo costume letterario, fruendo di mezzi speciali per esprimersi, come ad esempio le pratiche carnevalesche o il divertimento scolastico, finì per divenire una corrente letteraria, fornita di una propria, mutevolissima e frammista lingua.
Soprattutto nell’area padana si ebbero notevoli contributi al nuovo genere, come quelli di Ugolino Pisani, autore della “Repetitio Zanini”, una farsa goliardica che venne recitata a Pavia nel 1435, e di Sicco Polenton, padovano, autore della commedia “Catinia”.
In una lettera di Francesco Contarini, umanista e politico, datata 1450, si trova il primo cenno al termine “macarone”, riferito a dei versi satirici scritti da un giurista padovano, Daniele Porciglia, nei quali ad una base di latino “alto” si affiancavano irruzioni di elementi di natura bassa e deformante.

La statua di Sicco Rizzi Polenton

In effetti il “macaronico” risultava composto da una lingua di base, il latino, che assicurava tutte le sue strutture grammaticali e sintattiche, e dall’immissione su questa base di materia lessicale stridente con quelle forme e strutture.
Spezzoni di frasi e formule dialettali rompevano improvvisamente l’equilibrio strutturale latino in nome di una prospettiva prevalentemente ludica, giocosa.
Scrive Giulio Ferroni:

”… Questo intreccio linguistico è naturalmente legato ad un orizzonte ludico, come mostra la stessa denominazione di “lingua macaronica”, che allude ai macaroni, su di uno sfondo tutto materiale, culinario e carnevalesco: qui possono agire intenzioni parodiche o satiriche del tipo più diverso, senza che ad esse debba essere attribuito un punto di vista privilegiato. In partenza si può avere l’impressione che la rozzezza dialettale agisca aggressivamente contro la serietà e la pedanteria del latino di scuola e contro i modelli classicistici: ma può anche accadere che la matrice latina operi aggressivamente contro la stessa più “bassa” realtà quotidiana”.

Gia prima del 1489 un’opera, la “Tosontea”, di un imprecisato Corado, presentava aspetti tipici, seppure ancora rozzi, del gioco macaronico, mentre quel linguaggio si perfezionava con la successiva “Macaronea” di Tifi Odasi, in cui 700 versi esametri, contenenti vivaci ritratti caricaturali, vengono dedicati, nell’introduzione, alla musa Phrosina, “putanarum putanissima, vaca vacarum”.
Si deve attribuire presumibilmente ad uno studente di diritto un’altra opera macaronica, il “Nobile Vigonce Opus”, che conteneva una satira degli ambienti universitari, mentre i “Virgiliana”, scritti a Cremona da Matteo Fossa narravano di una beffa fatta ad un tal signore veneziano.
Non mancavano dispute dirette, come i “Macarona contra savoynos”, di un certo Bassano Mantovano, rivolti contro i piemontesi, seguita dalla risposta, ancora più violenta, di un astigiano, Giovan Giorgio Alione, i “Macarona contra Macaroneam Bassani”.
A cavallo dei due secoli il macaronico si trovò ad interagire con altre forme di mescolanza satirica di latino e volgare, come avvenne anche nelle composite parodie scritte nel linguaggio dei “pedanti”.
“Il pedante”, commedia di Francesco Belo, del 1529, ne è l’esempio più tipico, insieme con esercizi poetici quali “I cantici”, di Camillo Scroffa.
Non c’è alcun dubbio però che quando si parla di poesia macaronica non si può non parlare dell’esponente principale di quella particolarissima forma di letteratura, il mantovano Teofilo Folengo.

Teofilo Folengo

Personalità atipica rispetto a quella corrente di uno scrittore rinascimentale, Folengo sembra collocarsi al di fuori della nuova cultura Cinquecentesca, quella che cioè si riferiva ad un mondo di corte.
La sua opera è da considerarsi semmai più in continuità con le forme culturali tardoquattrocentesche che abbiamo citato, che si erano manifestate principalmente nelle letterature padane e venete, ed erano caratterizzate dall’atteggiamento spregiudicato, linguisticamente mescolato.
Ottavo figlio di un notaio, Girolamo Folengo, nato nel 1491, crebbe in una famiglia nobile di Cipada, frazione di Mantova. Di ingegno vivace da subito mostrò una vocazione per il verseggiare.
Entrato nel monastero di Sant’Eufemia presso Brescia, prese poi gli ordini benedettini, mutando il suo nome in Teofilo. Spostato poi vicino a Mantova, ebbe stretti contatti con una parte autorevole della cultura monastica.
La quotidianità conventuale lo metteva in contatto con la dura fisicità e materialità della vita, richiamando la sua attenzione sulla realtà dei rapporti, sugli incontri e scontri col mondo contadino, che lui, ricoprendo l’incarico di viceamministratore del convento in cui si trovava, conobbe bene.
Questo genere di esperienze, così diverse da quelle della alta istituzionalità religiosa, andò ad affiancarsi alle sue solide basi culturali, fornendo materiale per l’eterodossia che la sua opera doveva poi rivelare.

Veduta di Mantova

Anche l’ambiente mantovano nel quale, su impulso dei Gonzaga, erano moltissime le iniziative che promuovevano le arti figurative e le nuove forme teatrali e poetiche, agì come elemento arricchente della sua personalità, mettendolo in contatto con ulteriori forze ispiratrici.
Non è ben chiaro per quale motivo Folengo, ad un certo punto, abbia lasciato la vita monastica, ma certo è che in virtù di quella scelta si trovò ad affrontare dal 1525 in poi una vita di povertà, nel corso della quale si trovò a girovagare per molte città italiane, vivendo della sua abilità nel comporre versi.
Nel 1530, sentendo evidentemente stanchezza per quella vita disordinata, chiese ed ottenne di essere riammesso nel suo ordine religioso.
Intanto, nel 1517, sotto lo pseudonimo di Merlin Cocai, Folengo aveva pubblicato la prima edizione del suo libro più famoso, il “Liber Macaronices”, detto anche Baldus, dal nome del protagonista, un’opera in cui appare chiara la scelta del linguaggio macaronico, figlia sia del suo carattere che delle influenze eterogenee che avevano messo mano nella sua formazione.

Teofilo Folengo, Opus Merlini Cocaii poetae Mantuani Macaronicorum
Venezia, Domenico Imberti, 1585

Nella trama, che narrava le gesta di un eroe fittizio e dei suoi sodali, Folengo infilava anche se stesso, celato malamente dal suo pseudonimo, lodandosi satiricamente.
Apollo in persona consigliava ad un ambasciatore di Cipada, frazione natale di Folengo, di recarsi a cercare un degno poeta, ovvero Merlin stesso, che potesse rivaleggiare con Virgilio, nato nella vicina Pietole, e suggeriva di andare a pescarlo nei:

“regna lasagnarum, felix ubi vita menatur,/ocharumque illic verax paradisus habetur…”

oppure nei monti

“gens ubi salsizzis vignas ligat, omnis et arbor/ talibus in bandis tortas et tortellos”.

Nel Baldus, in cui comparivano acute descrizioni critiche della società del tempo, erano evidenti anche le natie influenze dialettali mantovane.
Pur spesso censurato per la volgarità del linguaggio, il libro fu un successo notevolissimo che portò ad un numero molto elevato di ristampe.
Dopo il Baldus, nel 1526, fu la volta dell’”Orlandino”, un poema in otto canti, scritto con un altro eloquente pseudonimo: Limerno Pitocco da Mantova.

L’edizione del 1550

Dal momento del suo rientro nell’ordine in poi, Folengo ebbe diversi incarichi di rettorato e di riorganizzazione di conventi benedettini, trascorrendo parte dei suoi ultimi anni in Sicilia, alla corte del Vicerè Ferrante Gonzaga, per ordine del quale scrisse la prima rappresentazione sacra mai messa in scena nell’isola, “L’Atto della Pinta”, composta sotto il nome di Merlin Coccaio.
Precedentemente aveva scritto altre opere di contenuto religioso, qualche tragedia e perfino un singolare ricettario, il “Doctrinae cosimandi viginti”.
Ritiratosi a Santa Croce Campese, una frazione di Bassano del Grappa, vi morì nel dicembre del 1544.
La sua influenza, forte in Italia, basti pensare a Luigi Pulci, si fece sentire anche oltre i confini nazionali: nel suo “Gargantua e Pantagruel”, Rabelais, da lui certamente ispirato, cita per tre volte Folengo, che fu ben conosciuto anche da Giordano Bruno e da Erasmo da Rotterdam che copiò una scena dal “Baldus”, mettendola nei suoi colloquia.
Non è dato sapere se questi riconoscimenti prestigiosi avrebbero inorgoglito Folengo: è lecito pensare che lo scrittore, se avesse potuto conoscerli, avrebbe tenuto i piedi ben piantati per terra, se si considera la modestia (autoironica) rintracciabile in questa frase autobiografica del Baldus:

“No, i carmi non mi dettino Melpomene, né quella minchiona di Talia, né Febo che gratta la sua chitarrina; ché, se penso alle budella della mia pancia, non si addicono alla mia piva le ciance di Parnaso. Ma soltanto le Muse pancifiche, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Strazza, Mafelina, Togna, Pedrala, vengano a imboccare di gnocchi il loro poeta, e mi rechino un cinque o un otto catini di polenta”.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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