Shalom Aleikem e il mondo yiddish di ieri

“Nella piccola città di Vronka, non lungi da Pereyaslav, dove nacqui nel 1859, trascorsi la mia prima età dell’oro, i miei buoni primi anni di giovinezza. Nella minuscola cittadina mio padre troneggiava come autorità riconosciuta da tutti i fratelli ebrei, presidente di tutte le società.
Noi figli di Nahum-ben-Zeew eravamo educati come i borghesi più rispettati e affidati al migliore dei maestri…”

In questa lettera ad un amico, Shalom (o Sholem) Aleichem, il più importante e conosciuto scrittore in yiddish della letteratura ebraica, descriveva i suoi primi passi nel mondo.
E’ da notare il peso che nelle sue parole assegnava all’educazione ricevuta, un imprinting tanto importante da far da contrappeso significativo alla condizione di povertà della sua famiglia di provenienza.
Nella realtà si chiamava Sholem Naumovic Rabinovic, nato appunto a Pereyaslav, ad est di Kiev, nell’Ucraina russa, da una famiglia di origine ebraica.

Targa all’ingresso della casa natale di Shalom Aleichem a Pereyaslav

La madre gli morì che aveva quindici anni, così il suo primo scritto fu un vocabolario che riportava tutti gli epiteti che gli affibbiava la sua matrigna.

“Fin dalla fanciullezza la mia fantasia era vivacissima – scrive nella lettera già citata – Le case mi apparivano sotto l’aspetto di città, i cortili sotto quello di regioni; gli alberi erano giganti, le ragazze per lo meno principesse, i giovanotti ricchi principi; l’erba dei campi mi pareva un esercito; gli spini e i tronchi erano filistei, idumei, moabiti, contro i quali io uscivo in guerra.
Sorprendere il ridicolo che vi è in ogni cosa e in ogni persona, era per me seconda natura; mi sentivo trascinato ad imitare gli atti e i portamenti di ognuno. Non è a dire quanti scapaccioni mi buscassi per questa mia abitudine. Ma per quanto fossi sbarazzino, era così intenso il dolore ch’io provavo per le sofferenze di tutti gli esseri viventi, che piangevo per i patimenti di un cavallo ammalato. Il mio cuore sospirava i mondi luminosi anelava al regno spirituale dei sogni e della fantasia…”

Shalom Aleichem giovane

Il giovane Sholem, acuto osservatore dalla natura sognatrice e fantasiosa, naturalmente amava anche la musica: per un bel po’ si esercitò di nascosto a suonare l’arpa dimenticando altri studi, fino a che suo padre non lo “guarì” a scapaccioni dalla musicomania.
Più o meno all’epoca della morte di sua madre, fu così colpito dalla lettura del maggiore romanzo di Defoe da scrivere un “Robinson Crusoe” ebraico, che impressionò molto suo padre e altri amici di famiglia. 

Negli anni successivi fu un accanito lettore, ma scrisse altrettanto: ormai la sua vocazione di scrittore si era fatta definitivamente strada.
Adottò uno pseudonimo comico, Shalom Aleichem, derivante dal saluto comune tra gli ebrei che significa “la pace sia con te”, ma che viene usato anche nel senso colloquiale di “Ciao, come stai”.
La sua vena di scrittore andò intensificandosi ed affinandosi in quegli anni:

“Nel periodo tra i 17 e i 21 anni lessi moltissimo, ma meno di quello che scrissi: poesie, racconti, commedie e articoli. Gli articoli li mandavo a tutte le redazioni ebraiche e non ebraiche (scrivevo ebraico e russo) che ne erano felicissime…”.

Terminati brillantemente gli studi scolastici, Sholem , troncata presto la possibilità di una carriera da rabbino, nel 1876 dovette andar via di casa per trovarsi un lavoro.

Dopo più di una peregrinazione, venne assunto come insegnante privato della figlia di un ricco proprietario terriero, Olda Loev.
Tra i due nacque un rapporto d’amore che nel 1883 li portò a sposarsi contro la volontà del padre di lei.
I due nel corso degli anni avrebbero avuto sei figli, tra i quali si distinsero Norman, pittore, e Lyalya, che divenne, come suo padre, una scrittrice in yiddish.
Anche se la letteratura destinata agli ebrei russi istruiti era scritta in ebraico, la lingua sacra, nella Russia e nell’Europa orientale di allora le comunità ebraiche parlavano molto di più lo yiddish.
La lingua yiddish, o giudaico tedesco, proveniente dal ramo germanico, era arricchita dall’apporto dell’ebraico e di altri elementi provenienti da lingue slave.
Scritta coi caratteri dell’alfabeto ebraico, era ed è parlata comunemente dagli ebrei aschenaziti.
Se pure la sua origine vernacolare la facesse spesso bollare dispregiativamente come “zhargon”, gergo, era così diffusa e compresa (anche dagli ebrei colti) che nel 1883 venne pubblicato il primo giornale scritto in yiddish, il “Volksblatt” di Aleksander Zederbaum.

Aleksander Zederbaum, fondatore e direttore del “Volksblatt”

Il giovane Sholem fece precocemente una scelta di campo linguistica a favore dello yiddish:

“Decisi di provarmi a scrivere nella semplice lingua del popolo, la lingua di Mendele-Moher Sefarim, le cui opere mi erano capitate tra le mani. Immaginatevi il mio immenso stupore quando vidi che il Volksblatt accettava le mie fantasticherie a braccia aperte, e il suo direttore in persona, Zederbaum, mi pregava con un suo autografo, che io continuassi a scrivere!”.

Dal 1883 in poi Sholem Aleichem produsse più di quaranta volumi scritti in yiddish, divenendo una figura fondamentale di quella letteratura.
Il successo riportato, amplificato negli effetti da qualche fortunato investimento di borsa, lo portò ad usare il suo patrimonio personale per favorire la diffusione dello yiddish e la carriera di altri scrittori in quella lingua.

Una banda klezmer di Pereyaslav nel 1880. I membri di questa banda furono spesso citati negli scritti di Sholem Aleichem. Dal libro “Jewish Instrumental Folk music”

Nel biennio 1888-1889 pubblicò un almanacco, “Di Yidishe Folksbibliotek”, “La biblioteca popolare yiddish” che segnò infatti l’esordio di molti giovani scrittori.
Una speculazione sbagliata nel 1890 gli fece tuttavia perdere l’intero suo patrimonio, così il terzo numero della rivista, già pronto, non potè più essere pubblicato.
Negli anni successivi la sua attività fu necessariamente frenetica: continuava a scrivere in yiddish e contemporaneamente scriveva in russo per un giornale di Odessa e per il periodico “Voskhod”, la principale pubblicazione ebraico-russa.

Fu quello il periodo in cui Sholem Aleichem contrasse per la prima volta la tubercolosi.
Dopo il 1891 lo scrittore visse prima ad Odessa, poi a Kiev.

Nel 1904, nell’antologia : “Aiuto: Un’antologia per la Letteratura e l’Arte”, pubblicò tre storie inviategli da Tolstoj ed i contributi di altri scrittori russi, tra i quali Cechov, a sostegno delle vittime del pogrom di Kishinev.
L’ondata antiebraica di quegli anni in Russia fu terribile: case violate, persone picchiate e uccise con pietre, pali ed asce, negozi devastati e proprietà sottratte, donne stuprate, sinagoghe assaltate e libri sacri distrutti. 

Vittime di un pogrom ad Ekaterinoslav nel 1905

Il comportamento della polizia russa, poi, spesso indifferente, era sostanzialmente complice e le sue reazioni erano in molti casi tardive ed inefficaci. 

Il moltiplicarsi in quell’inizio di secolo delle azioni collettive antiebraiche, con pogrom che colpirono gli ebrei in tutta la Russia meridionale, convinsero Sholem Aleichem, seppur riluttante, a lasciare il paese nel 1905.

Sholem Aleichem

Si trasferì a New York, ma i suoi tentativi falliti di imporsi nel locale mondo del teatro yiddish, lo portarono a tornare in Europa, a Ginevra, in Svizzera, dove nel frattempo si era trasferita la sua famiglia.
La necessità di procurarsi mezzi adeguati, oltre allo scrivere assiduamente, lo spinse a sottoporsi a estenuanti viaggi per tenere un po’ ovunque delle conferenze perchè, a dispetto della grande popolarità, non ricavava grandi entrate dalle sue opere.
Opere come i romanzi “Menachem Mendel”; “Jossele Solovei” o “Marienbad”, o la raccolta di poesie “Il fascio di fiori” o il dramma ”E’ difficile essere ebrei”.

Ma erano soprattutto i racconti a garantire a Sholem Aleichem la fama internazionale, racconti che con vivacità ed umorismo restituivano vivissimo il mondo degli shtetl, i piccoli villaggi ebraici sparsi nell’Europa centrorientale, e delle figure caratteristiche che li popolavano.

In fila ad una cucina popolare in uno shtetl in Volinia nel 1900

Tre quarti degli ebrei di quelle terre vivevano negli shtetl.
Dagli anni successivi al 1840 per varie cause, iniziò un progressivo declino di quegli insediamenti.
Povertà, incendi, industrializzazione e antisemitismo, fecero sì che la popolazione degli shtetl diminuisse costantemente.
I pogrom russi e polacchi, sempre più frequenti dal 1880 in poi, anticiparono in qualche modo lo sterminio su larga scala degli abitanti di quei piccoli villaggi ebraici, sterminio avvenuto più tardi ad opera dei nazisti e che cancellò definitivamente il mondo degli shtetl.
I libri di racconti di Aleichem contribuirono però ad immortalare quel mondo destinato alla scomparsa, riconsegnandocelo in tutta la sua vivacità.
Antieroe per eccellenza di queste novelle, in particolare, fu Tewje, protagonista del ciclo intitolato “Tewje il lattivendolo”.

Questo lattaio ambulante è da considerarsi forse il personaggio più vivo di tutta la letteratura ebraica moderna.
Girando di casa in casa in un distretto russo di fine secolo diciannovesimo, Tewje va vendendo latte e latticini, intrattenendo con i suoi clienti e con il suo ambiente un rapporto intriso di comprensione dei guai propri ed altrui, costellato di chiacchiere autobiografiche, di citazioni bibliche storpiate e di riflessioni sagge.
Messo costantemente in contatto con le durezze della vita quotidiana, Tewje con la sua piccola odissea, diviene l’emblema stesso dell’ebreo errante della diaspora, ma anche dell’uomo suo contemporaneo, costretto a misurarsi col disordine del mondo circostante.
Filosofo e stoico senza saperlo, il lattivendolo non si fa mai scoraggiare, opponendo alle difficoltà di ogni giorno una simpatia ed un homour impareggiabili.
Nel 1908 Aleichem ebbe un collasso durante un faticoso tour di conferenze in Russia, collasso che rivelò il riaffiorare della tubercolosi emorragica di cui aveva già sofferto.

L’incontro faccia a faccia con quello che lui chiamò “l’Angelo della Morte” lo spinse a scrivere la sua autobiografia, “Tornando dalla fiera”.
Negli anni seguenti lo scrittore, in conseguenza della malattia, visse in uno stato di seminvalidità, tornando a scrivere solo dopo un piccolo miglioramento delle sue condizioni di salute.
In quel periodo di forzata inattività lui e la sua famiglia poterono contare sul generoso aiuto economico di amici e sostenitori.
Il nuovo trasferimento del suo nucleo familiare negli Stati Uniti, a New York, non potè essere completo a causa della malattia del figlio Misha, tubercolotico, a cui non fu quindi concesso il visto. Rimasto in Svizzera con la sorella Emma, il ragazzo nel 1915 morì, gettando Sholem in una grave depressione.
L’anno successivo, all’età di 57 anni, Aleichem si spense mentre stava completando il suo ultimo romanzo, “Motl il figlio del cantore Peyse”.
Con un funerale straordinario, al quale parteciparono centomila persone, lo scrittore fu sepolto nel Queens, nel cimitero di Mount Carmel.

La folla al funerale di Sholem Aleichem a New York

Il giorno successivo, secondo le sue volontà, il suo testamento fu pubblicato sul New York Times e letto al Congresso degli Stati Uniti d’America.
Queste le sue prime righe:

“Dovunque io muoia, chiedo d’esser sepolto non fra gli aristocratici e i potenti, ma fra i semplici lavoratori ebrei, fra il popolo, in modo che la lapide che sarà collocata sulla mia tomba illumini le semplici tombe intorno a me, e queste semplici tombe adornino la mia lapide, come il buon popolo illuminò, durante la mia vita, il suo scrittore popolare…”

Nelle sue ultime  volontà, Aleichem raccomandava inoltre agli amici e ai familiari di riunirsi ogni anno, nell’anniversario della sua morte, per leggere il suo testamento, per scegliere una delle sue storie, una di quelle molto felici, e recitarla.
Quelle riunioni continuano ancora oggi e di recente sono state aperte al pubblico.
In conclusione Sholem Aleichem aggiunse:

“Fate che il mio nome sia ricordato con il riso o non ricordatelo affatto”.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.


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