Sin dal primo momento in cui ci troviamo in grado di leggere, il nostro viaggio all’interno dei libri, parallelo ad esso ed indispensabile per comprendere il viaggio che facciamo nel mondo, vive molte fasi.
Il nostro rapporto con la lettura di solito prende le mosse dallo stimolo familiare, ove sia presente, e quindi anche dalla emulazione: se io bambino vedo che nella casa dove sono nato o risiedo, una casa piena di libri, leggere è ritenuto un piacere, sarò portato a cercare quel piacere a mia volta.
Se è vero che la scolarizzazione ti fornisce gli strumenti tecnici per renderti indipendente nel leggere, è altrettanto vero che l’ambiente a te circostante ti dà l’imprinting culturale: i primi libri te li regalano o te li consigliano genitori e parenti e a quel punto si può solo sperare che le loro siano scelte azzeccate perché il nostro futuro personale, e non solo quello di lettore, dipenderà molto dall’appeal esercitato su di noi da quelle prime esperienze di lettura.
Se i semi dell’emulazione e dell’imprinting attecchiscono, noi diventiamo dei lettori.
Nel corso dei primi anni da lettori ci attacchiamo come ventose a qualsiasi parola stampata, poi alla pura forza attrattiva delle storie e delle trame che le organizzano.
Infine arriva il momento in cui cominciamo a badare anche a come quelle storie sono scritte.
Scopriamo dopo molti anni di lettura di aver sviluppato un gusto personale, e sarà quello che, da un certo momento in poi, stabilirà il discrimine tra noi ed il nostro maggior o minor gradimento di un libro, romanzo, raccolta poetica o saggio che sia.
Nel mio caso, da tempo mi sono rassegnato alla tendenza ad essere netto come lettore, ad amare contenuti e stili letterari pronunciati, fortemente caratterizzati: sono quasi un estremista, insomma.
Se è certo che amo gli scrittori “stilisti”, quelli nel narrare che curano particolarmente l’eleganza formale senza essere tuttavia “di maniera” o barocchi, è assodato che apprezzo altrettanto gli irregolari, gli ingegni innovatori, quando non addirittura balzani.
Nella prima categoria, quella degli scrittori di grande raffinatezza, includo da sempre uno scrittore americano che poco risente del pragmatismo stilistico proprio dei suoi connazionali: Henry James.
Credo, e mi pare di ricordare bene, che il primo contatto da me stabilito con lui sia stato con la lettura da parte mia del “Carteggio Aspern”.
L’ambientazione ottocentesca veneziana, di particolarissima eleganza, ed il fascino di una storia imperniata sul feticismo culturale, donavano a quel lungo racconto una tale ed incisiva bellezza da conquistarmi per sempre.
Seppi dopo che l’opera fu ispirata da un aneddoto riguardante un discepolo di Shelley, che aveva cercato di rubare alcune lettere del poeta.
Mi fu subito evidente che James, americano di nascita ma non di formazione, avesse subito fortemente le seduzioni della raffinata, ancorché decadente, letteratura europea.
Era una famiglia di intellettuali quella in cui a New York. nell’aprile del 1843, nacque Henry James.
Il padre, Henry senior, era un filosofo e un grande teologo che coltivava anche un vivace interesse per la letteratura.
Era una figura contagiosa, capace quindi di influenzare con la sua personalità tutto il suo ambiente familiare e non fu certamente casuale che, oltre ad Henry junior, anche i fratelli si fossero poi dedicati a professioni intellettuali: William James fu insigne psicologo e filosofo e anche sua sorella Alice divenne scrittrice.
Naturalmente un humus di questo tipo permise al giovane Henry di ottenere una educazione di prim’ordine, allineando una serie non comune di studi e di esperienze di vita che accrebbero la sua apertura mentale e, di conseguenza, le sue già cospicue doti personali.
Gli fu concesso di viaggiare moltissimo tra America ed Europa, con la sua famiglia, e di essere affiancato da celebri istitutori europei, a Ginevra, Londra, Parigi e Bonn.
Verso i diciannove anni si iscrisse ad Harvard per un corso di studi giuridici che non portò mai a termine, richiamato da altre propensioni in lui più spiccate, come quella, precoce, allo scrivere, a leggere e ad interessarsi di letteratura.
Da queste prime note biografiche già è facile capire che una formazione come quella da lui ricevuta, lo mise in grado di conoscere molto bene la cultura europea, subendo per sempre l’influenza di una storia, non solo letteraria, molto più lunga e stratificata di quella della sua nazione di origine.
Sin dalla prima giovinezza, dunque, il giovane Henry potè dedicarsi allo studio delle più importanti letterature europee: quella inglese, quella francese, l’italiana, la tedesca e la russa, oltre che, naturalmente quella americana.
Il suo approccio con quelle culture fu oltretutto particolarmente approfondito, visto che era in grado di leggere in originale i testi di tutte le loro lingue, con la sola eccezione di quelli russi che lesse in traduzione.
A ventuno anni uscì in forma anonima il suo racconto breve: “A Tragedy of Error”, prima sua esperienza narrativa in assoluto e suo primo misurarsi con un genere letterario di cui divenne un maestro assoluto.
Fu l’esordio in una attività alla quale, da allora in poi, si dedicò con una grandissima costanza, divenendo così uno degli scrittori più prolifici della storia della letteratura.
Assidua fu anche la contemporanea collaborazione con numerosi giornali e periodici come The Nation. The Atlantic Monthly, Harper’s e Scribner’s.
Nel 1871 James pubblicò “Watch and Ward”, da noi tradotto col titolo di “Tutore e pupilla”, quattro anni dopo uscì il suo romanzo “Roderick Hudson”.
Già nelle sue prime prove appariva incisiva l’influenza di alcuni grandi narratori europei, quali Turgenev e Balzac, parimenti riscontrabile, tuttavia, era anche l’influsso di un colosso della giovane letteratura americana, Nathaniel Hawthorne.
Negli anni Settanta dell’Ottocento decise di trasferirsi in Europa, risiedendo in un primo tempo a Parigi per poi, a partire dal 1876, spostarsi definitivamente in Inghilterra, a Londra prima, e successivamente alla Lamb House di Rye, nel Sussex.
Il suo trasferimento in Gran Bretagna segnò l’inizio di un periodo di particolare prolificità letteraria, tanto che dal 1877 in poi Henry James scriverà una notevole mole di romanzi e racconti brevi: “The American”; “The Europeans”; “Confidence” (“Fiducia”); “Washington Square” “The Portrait of a Lady” (“Ritratto di signora”) e nel 1886 “The Bostonians”.
Di opera in opera andò perfezionando sempre più il suo stile che da quello più diretto e semplice delle opere giovanili, andrà facendosi sempre più complesso e raffinato, tanto da apparire in alcuni casi perfino barocco.
Tale adesempio apparve alla sua amica scrittrice Edith Wharton, che gliene fece un costante rimprovero.
La sua preoccupazione di produrre opere stilisticamente impeccabili traspare evidente anche da ciò che lui stesso ebbe a dire a proposito della stesura di un romanzo:
“Ricorda che il tuo primo dovere è di essere il più completo possibile e di rendere l’opera perfetta. Sii prodigo, sii generoso e ambisci al premio”.
La raffinatezza che James perseguiva gli permise di affrontare in molte delle sue opere il ricorrente tema del contrasto tra la decadente e sofisticata Europa, affascinante e corrotta e l’America, diretta e sicura di sé, ma avviluppata dai ceppi del puritanesimo.
Quello di questi due mondi, mondi che data la sua appartenenza ad entrambi, conosceva molto bene, fu l’incontro – scontro che spesso gli fornì anche il materiale per definire psicologicamente i personaggi dei suoi romanzi.
Lungi dal ritenere lo scrittore al di sopra della materia narrativa trattata, James contribuì anche alla critica letteraria del suo tempo elaborando la teoria secondo la quale gli scrittori, attraverso le loro opere, sono chiamati a rappresentare la loro personale visione del mondo.
Pur risiedendo in Inghilterra, non rinunciò a tornare più volte nella madrepatria, ma ormai era l’Europa, da sempre polo della sua attrazione culturale, il luogo nel quale gli era più facile scrivere.
Nell’ultimo scorcio del secolo portò a termine altri grandi romanzi: “The Princess Casamassima”, “The Reverberator” (“Il riflettore”) e “The Tragic Muse” (“La musa tragica”).
Ininterrotta fu anche la sua produzione di racconti brevi, spesso capolavori della letteratura gotica, come lo splendido e tenebroso “Il giro di vite”, pubblicato nel 1898, nel quale, senza ricorrere a nessun espediente spettacolare, James riesce a far lievitare comunque una tremenda tensione psicologica.
Col nuovo secolo, il Novecento, usciranno “The Ambassador” (“L’ambasciatore”), “The Wings of Dove” (“Le ali della colomba”) e “The Golden Bowl” (“La Coppa d’Oro”).
La sua vita privata fu sempre caratterizzata da un estremo riserbo, una riservatezza cortese che non gli risparmiò tuttavia alcune voci malevole.
Non si sposò mai, né mai si seppe se ebbe una vita sessuale attiva.
Dalle sue lettere emergeva comunque un temperamento socievole e dell’affetto sincero dimostrato ad alcuni uomini e a qualche donna, ma non è stato mai chiarito se questi sentimenti portarono a rapporti più profondi.
Molti critici hanno ipotizzato che lo scrittore fosse un omosessuale represso, che tacesse sulle sue inclinazioni per paura di violare le convenzioni sociali del suo tempo.
Questa tesi fu avvalorata da Faulkner che lo definì ”La più gentile anziana signora che abbia conosciuto”, e da Thomas Hardy che, piccato da una critica negativa di James al suo romanzo “Tess dei D’Uberville”, ne parlò come di “una virtuosa signorina”.
Nulla di definitivo sotto questo aspetto, o di davvero importante, è emerso però dallo studio della sua biografia.
Henry James tornò per l’ultima volta negli Stati Uniti nel 1904, interrompendo i suoi rimpatri dopo il 1914, anno dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Sdegnato per la decisione degli Usa di non intervenire nel conflitto, decise di chiedere la cittadinanza britannica.
Il 2 Dicembre del 1915 James fu colto da un attacco cardiaco a Londra.
Nella capitale inglese si spense qualche tempo dopo, il 28 febbraio dell’anno successivo.
Le sue spoglie tuttavia vennero sepolte negli Stati Uniti, nel cimitero di Cambridge, nel Massachusetts.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.