Il racconto di Natale

Come fu che si giunse ad un racconto di Natale

Il passante che si trovi a camminare in una viuzza della quale non posso fare il nome, in un quartiere residenziale di una città misteriosa, passando davanti ad uno dei cancelli, noterebbe un ingresso che, tra arbusti di graziose piante fiorite, conduce al portoncino discreto di una casa.
Nemmeno l’individuo squassato dalla più scatenata fantasia potrebbe immaginare che in quel contesto così tranquillo e rasserenante, al di sotto del piano stradale, si celi il bunker – redazione di Latina Città Aperta.
Il bunker, naturalmente, non è affatto in sintonia estetica con quello scenario rilassante, ha tutt’altro aspetto infatti.
Possiede in pieno l’aria di uno di quei posti nel quale si scatena la furia creativa di menti inclini all’azzardo intellettuale, teste in costante bilico tra aspirazione culturale e l’aspirazione di sostanze nocive.
II bunker appare significativamente come una mistura tra la consolle di un’astronave, il covo di un gruppo di esistenzialisti francesi ghiacciati negli anni Quaranta e scongelati di fresco, ed il negozio di un rigattiere.
L’ambiente è di quelli peculiari, che invitano i temperamenti più creativi ed eccitabili a sfogare senza riserve le loro idee più azzardate.
Qualche giorno fa in quel bunker si è svolta un’assemblea plenaria della redazione.
Fondatori e redattori erano tutti presenti, mentre i collaboratori esterni erano collegati in videoconferenza.
La perentoria convocazione era stata fatta da Klaus Troföbien, l’estensore dei vivaci pezzi sulla musica rock e sui costumi italiani degli anni Sessanta/Settanta: Natale era vicino e nonostante il numero appena uscito, ad esso in gran parte dedicato, sarebbe stato opportuno, secondo lui, pubblicare qualcosa, un racconto ad hoc magari, proprio nel giorno fatale: il 25 dicembre.
L’annuncio aveva gettato i redattori in uno stato di plumbeo sconforto e di palpabile irritazione.
Fresia Erèsia, la curatrice delle pagine di poesia e di altri delicati temi filosofico letterari, un essere dal carattere etereo e ipersensibile, fluttuando dalle parti del soffitto, emise un gemito: “Io ho già dato! Ho scelto la poesia, che altro volete? Oltretutto il periodo è quello che è, tutta questa bontà tremenda, lo vedete, eccitando oltre misura la mia sensibilità, mi fa levitare come un dirigibile: avrò problemi seri perfino per cucinare per i parenti che mi piomberanno in casa, a meno che non installi dei fornelli a ridosso del soffitto della cucina”. 

“Io anche vi ho dato esattamente quanto vi dovevo – le fece eco Erasmo, strillando da uno degli schermi – quanti altri pezzi dovrei scrivere? E poi, qui nel Kurdistan, del Natale non ci importa più di tanto!”.
Era in videoconferenza e sembrava sistemato in una stanza che, curiosamente, aveva un po’ le stesse caratteristiche del bunker.
Stava piazzato su una poltroncina a rotelle che aveva l’aria di aver affrontato mille battaglie, resistendo nei decenni agli assalti di chissà quante terga umane.
Il redattore estero sembrava assolutamente risoluto nel diniego e per sottolinearlo consultava ostentatamente il prontuario  con gli orari della tratta ferroviaria tra Kurdistan e Irak.
Gli ampi calzoni del costume tipico curdo, andava detto, non gli donavano granché.
Klaus, che si era fatto promotore in prima persona  dell’iniziativa del racconto per il Natale, appariva progressivamente sempre  più spazientito.
Provò allora a rivolgersi allo spiegazzato giornalista Lallo Tarallo. Quest’ultimo era arrivato in compagnia di Consuelo, donna dalla bellezza non comune.
Quando con aria timida lei aveva fatto ingresso, subito dopo Lallo, nel bunker, i led di tutti gli apparecchi presenti si erano accesi mettendosi a lampeggiare forsennatamente, come cuori in tumulto, e dal giradischi spento la voce di Nilla Pizzi aveva preso a cantare: “Graaaziee dei fioor, tra tutti quanti li ho riconosciutiiii…”.
Greta Parmiggiani, altra redattrice storica, stava rivedendo la sua intervista al Presidente di una Associazione per la Salvaguardia del Grizzly, di stanza a Pompei, cosa che aveva destato più di un sospetto sulla congruità di quel sodalizio, e sembrava disinteressata agli eventi che andavano maturando.
La situazione dunque stagnava.
Il coperchio su quella pentola era stato sistemato definitivamente dalla loro corrispondente inglese, Ornella Moscucci, che, servendosene per rifiutare l’impegno, aveva citato a suo discarico un regolamento vittoriano del 1883 che mitigava lo sfruttamento dei lavoratori della pagina e stabiliva per essi anche una distribuzione straordinaria di tè.

“Basta! – strillò Klaus,

spostando dalla sua scrivania la scatola di latta di una marca di biscotti piemontesi, celebre alla metà dell’Ottocento
– Basta così: tireremo a sorte! Faremo una, come si chiama… una roulette russa, per stabilire chi dovrà scrivere il racconto di Natale”.
“Se la facciamo russa, Klaus, – sbottò allora Erasmo dal suo schermo, comprendendo il lapsus in cui era incappato il redattore – quello di Natale sarebbe l’ultimo articolo fatto da gente in vita.
Per i prossimi numeri ci si dovrebbe servire di qualche medium!”.
Tutti infine concordarono sulla lotteria, così cercarono dei foglietti, ci scrissero i loro nomi e li mescolarono.
Misero il mucchietto in terra.
Per l’estrazione del nome venne convocata la Bella Otero, una delle gatte di Klaus.
Incuriosito, l’animaletto si avvicinò ai bigliettini appallottolati e per prima cosa li fiutò. Poi, con la zampina ne scostò uno dagli altri e lo lanciò rincorrendolo velocissima.
Per toglierglielo dalle zampe fu necessario rimpiazzarlo con un’altra pallottola di carta con la quale la gatta continuò a giocare felice.


Il nome del predestinato sul foglietto era proprio il suo!
LALLO TARALLO cadde a terra, preda di feroci convulsioni.
Poi, come Garibaldi, disse: “Obbedisco”.
E svenne.

Racconto scettico di Natale

G. soffriva già da qualche giorno, ma conosceva bene questa pena sottile, sfuggente e in grado di spargergli addosso costantemente una polverina impalpabile di malinconia.
Seppure fosse lievemente dolorosa, quella spina rientrava in una sua anormale normalità: lui da sempre era attratto e infastidito dal Natale.
Oddio no, non proprio da sempre.
Ad essere precisi tutto era precipitato nell’anno tragico in cui aveva scoperto che Babbo Natale era un’invenzione, o meglio da quando ne aveva avuto l’assoluta certezza.
Qualche voce gli era arrivata negli anni, sì, dichiarazioni nette, ma lui non le aveva prese mai in seria considerazione, anche perché i primi responsabili di quelle che gli erano parse da subito delle assurde, sfrontate insinuazioni, buone solo per mettersi in mostra, erano stati, guarda caso, i compagni più sgradevoli, asini carichi di note negative sul registro di classe o schifosi brufoloni ad alta eruttività facciale.
Col passare del tempo però, quelle voci si erano infittite: ormai anche dal fronte dei “buoni” filtrava un malcelato scetticismo.

Fuoco amico su Babbo Natale.

Perfino il suo compagno di banco, Albertino, un bambino vergognosamente perbene, ben stirato dentro e fuori, gli aveva spifferato di avere le prove che i regali che trovavano sotto l’albero la mattina del giorno di Natale, ce li piazzavano i genitori.
I genitori!!??
Lui si era coperto le orecchie e aveva cantato una tiritera senza senso, tirando fuori la lingua e roteando follemente gli occhi.
Albertino, sorridendogli con dolcezza, gli aveva stracciato, lentamente e guardandolo dritto in faccia, la copertina del quadernone, quella con la bellissima foto a colori del dugongo.
Era stato un atto da serpentello, eppure, molto più del compianto per l’estinto dugongo, lo aveva ferito quella sua drastica affermazione:

Babbo Natale non esiste,

i regali li comprano i nostri genitori! Dubbi, ancora dubbi invadenti: come poteva fabbricarsi la sua piccola, annuale santità, se era roso da quei dubbi?
Nulla naturalmente che un pio, catartico e caldo Natale in famiglia, una gioiosa macchina smacchiatrice, non cancellasse istantaneamente, nulla che non si riuscisse a seppellire sotto un bel crollo di tartine, di montagne di pasta, di cotechini, di regali, di nastrini e di preghiere.
Nel loro piccolo e organizzato angoletto di paradiso, ogni giorno per tutto il corso dell’anno, qualsiasi cosa risultava fatta a misura, adeguata, ben gestita, lontana dai clamori dell’imperfezione, distantissima, a diverse galassie, dai ruggiti di insoddisfazione e di ostentazione cafona che provenivano dalle parti infime della terra.
Figurarsi dunque cosa poteva essere per la sua famiglia il Natale!
Il loro addobbo, grazioso e mai invadente, decorava sia il mondo materiale che quello degli umani.

Palle,

piovevano soprattutto palle, moltissime palle, il simbolo natalizio per eccellenza, piazzate sull’abete, fissate con nastrini colorati alle porte, ai cassettoni, a librerie povere di libri ma cariche di ninnoli.
E se questi erano i tradizionali, immancabili e soverchianti addobbi fisici, altrettanto rigogliosi si presentavano quelli biologici, quelli umani cioè: le zie e gli zii, i cugini tutti, i cognati, le fidanzate di chicchessia e poi infinite distese di nipotini, di graziosissimi, vocianti e pluridefecanti nipotini, nipotini a perdita d’occhio…

La sala da pranzo, un appezzamento di terreno dalla plateale vastità, veniva riempita per metà da lunghi tavoli e dinanzi alla perfetta apparecchiatura della tavola, ai piatti ed alle posate dalla discreta doratura, venivano piazzati dei segnaposto coi segni zodiacali, che, tra l’altro stabilivano le gerarchie d’onore tra i presenti.
Mai un mormorio di protesta si levava nei confronti di quella implicita classifica, nessuno si era messo a contestarla, mai un malumore o un dissenso, da che se ne avesse memoria.
Il restante e cospicuo spazio di quella stanza, ombreggiato da un colossale e pluripalluto abete, veniva adibito a discarica dei tanti regali che vi si ammonticchiavano senza tracimare, disposti ordinatamente.
”Merito di Babbo Natale, che la notte scorsa si è disturbato a portarveli – dicevano i grandi ai piccini – sono bene in ordine perché lui è una persona educata e non mette mai in disordine le case che visita”. 
“Babbo Natale ti ringrazio!! – aveva ragliato un suo cugino nel momento culminante della festa di qualche anno prima, e strillò tanto forte ed esaltato da sovrastare il pigolio assordante dei piccoli che stracciavano a morsi le carte fluorescenti dei loro pacchi dono – Mi hai portato l’iscrizione al Master di People Financial Destroyng di Boston, quella che aspettavo da un anno!!
È un sogno: grazie! Grazie!! Grazie!!!”.  

L’esultanza del cugino

“Magia del Natale” pensò G., definitivamente rassicurato, tentando addirittura di commuoversi.
Com’era tutto giusto, esatto, gradevole! Fossero tutti così i Natali!

E invece…
Ricordava anche altro.
Era stato invitato a casa di un suo compagno di classe, Engels, proprio nei giorni che precedevano la santa festività.
Tanto per cominciare G. fu enormemente stupito di trovare una casa molto piccola, anche se luminosa, e carica fino a scoppiare di scartoffie, di riviste e di libri.
Poi, e questo gli provocò il suo secondo choc, in quell’appartamento non c’era una sola decorazione natalizia!
Nulla, non una palla, non due, niente di niente, solo quadri, anzi dei poster che riproducevano quadri stranissimi, incomprensibili.
La madre del suo compagno era un tipo scarmigliato e divertente che quando scherzava ancora si accendeva di bellezza, viva come quando era giovanissima. Faceva l’impiegata negli uffici di una fabbrica di maglieria, lavorava tanto e la pagavano poco.

Il padre di Engels invece se ne stava a casa e scriveva soggetti per quei romanzetti d’amore che escono in edicola.

Al contrario del padre di G., lui sapeva tutto ma guadagnava pochissimo e faticosamente: notti e notti ad inventare quello che era già stato inventato dai grandi della letteratura amorosa e a banalizzarlo per renderlo adatto a tutti.
Era un tipo ispirato e nervoso: G. ne era attratto, ma non riusciva a capirlo, forse neppure a concepirlo.
Quel pomeriggio, l’altra figlia, Morgana, la sorella maggiore di Engels, ad un certo punto era comparsa nella stanza dove tutti loro stavano prendendo un tè coi biscotti.
Era carina Morgana, terribilmente carina.
Si accostò come una gatta al padre, e lui la accarezzò con occhi che si erano fatti improvvisamente brillanti.
Lei, presa forse da quello che doveva dirgli, non badò più di tanto allo sguardo compiaciuto dell’uomo: aveva urgenza di parlargli.
Disse: “Papà, so che noi non lo festeggiamo, ma avresti qualcosa in contrario se io il giorno di Natale portassi qui a pranzo una persona?..” Poi tacque imbarazzata.
“ Mi devi dire qualcosa?” Il padre, dicendolo, le diede un’occhiata penetrante e ironica insieme. “Stai frequentando qualcuno? Debbo pensare che siamo in presenza di una cosa seria?”
“Sì, te ne avrei parlato anche prima papà, ma sai com’è…
Mi vedo, frequento, insomma sto, stiamo insieme con … Lui è l’Ingegner…

“COOOSAA!!?? UN INGEGNERE!!?? “ 

L’ingegnere

G. per la sorpresa e l’imbarazzo ebbe un sussulto e lasciò cadere un biscottino nel tè, provocando uno spruzzo che si disperse in tante, minuscole, macchioline sulla tovaglia.
Dopo il primo, vistoso, stupore, Il padre di Engels aveva convertito il suo sbigottimento in un’arringa appassionata, stranissima e quasi folle, che ebbe però l’effetto di catturare l’attenzione spasmodica di G., disabituato a vedere scene simili nella sua cerchia familiare, in cui perfino la peristalsi intestinale veniva tenuta sotto ferreo controllo. 

“Ma come figlia mia, mi porti un ingegnere?
Cosa ti è rimasto di quello che ti insegno da una vita?
Mi porti uno che fa calcoli?
Tu sai che il dolore che mi dai lo dai a te stessa: che potrà mai dirti un ingegnere, tesoro mio!
Di che parlerete? Hai un’idea anche vaga di cosa può essere dividere la vita con un ingegnere? Ecco, guarda, facciamo finta che tu non mi abbia detto nulla.
Ripetiamo tutta la scena, ma senza ingegneri in mezzo.
Riprendi il senno, il cuore ed il tuo istinto a volare alto.
Portami di tutto ma non gente che fa calcoli.
Portami uno spiantato: lo adorerò.

Portami… portami un poeta cecoslovacco figlia mia, mettimi davanti un cupo traduttore dal sanscrito, uno sceneggiatore russo che si chiami Finkelstein, perfino un cantante di cabaret!
Tutto, tutto, ma non un agiato, ordinato, organizzato, metodico, controllato ingegnere!”.

E la voce a quel punto gli si incrinò.

Lo sceneggiatore russo

A questo punto la mamma di Engels, un po’ imbarazzata e ansimante, intervenne: “Ma i tuoi staranno chiedendosi che fine hai fatto G.! Penseranno che ti sei smarrito o che sia stato rapito. Vieni, prendi il cappotto che io e Engels ti riaccompagniamo a casa”. 
“Che razza di casa, e che gente! – pensò G. quella notte prima di addormentarsi – Nessuna decorazione, nessun accenno a Babbo Natale e nessun desiderio da sottoporgli, nessun dono da farsi portare.
L’unico desiderio che ho sentito esprimere, quello di Morgana, che proponeva nientemeno che un ingegnere, una fortuna per dei semistraccioni, è stato rigettato come se questo signore, certamente perbene, fosse uno zotico pezzente.
Che gente! E che casa!”.

Passarono i giorni, molti giorni, parecchi giorni.

G. la notte della vigilia di Natale si svegliò, pressato da un bisogno non rinviabile.
Ottuso, cisposo e barcollante stava caracollando verso il bagno quando sentì il bisbiglìo di almeno un paio di voci provenire dal grande soggiorno.
Un chiarore pallido tremolava, schizzando qua e là sui muri di quello sterminato ambiente.
Incuriosito G. deviò i passi dirigendoli verso quella luce. Era scalzo e non fece quindi alcun rumore.
Allungò la testa con cautela, come una tartaruga, verso l’interno della stanza e…

li vide:

vide suo padre e sua madre, che faticosamente, aiutati da Tonia, la domestica, che aveva una torcia in mano, piazzavano i pacchi dono sotto il fronzuto e nerboruto abete natalizio. Tutta l’operazione si svolgeva nel segno di una maniacale attenzione al dettaglio.
Era vero, accidenti, tutto vero!
Quella notte G., arrivato a quarantuno anni di età, dovette dar ragione a quella coltivatissima serpe di Albertino:

Babbo Natale non esisteva,

i regali provenivano dai genitori.
Perse così l’innocenza. Per sempre. 

Mentre tornava nella sua stanza, reduce da quel trauma e dal bagno, fece seduta stante il suo primo voto laico: decise di farsi crescere immediatamente la barba.
In capo a una quindicina di giorni divenne il ritratto sputato di Cacciari e dall’innocuo fastidio che ne aveva provato fino a quel momento, iniziò decisamente a detestare il Natale.

******* FINE *******

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