Che vie prese la satira periodica italiana dopo la breve, movimentata e gloriosa avventura del “Becco Giallo”, spezzata nel 1926 dalla mano censoria del regime fascista?
Qualche anno dopo quella brutale soppressione, e precisamente nel 1931, Oberdan Cotone e Vito De Bellis, fondarono il “Marc’Aurelio”, una pubblicazione periodica umoristica e satirica che raccolse alcuni dei tranfughi di alcune delle maggiori testate dei primi decenni del Novecento.
Gabriele Galantara, Furio Scarpelli, Age, Gioacchino Colizzi detto Attalo, Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Giovanni Mosca, Mario Bava, Ettore Scola, Walter Faccini, Cesare Zavattini e il diciottenne Federico Fellini: questi, tutti prestigiosissimi, sono solo alcuni dei nomi che animarono quel nuovo progetto.
Ammaestrati dagli esiti letali di esperienze precedenti, i fondatori del giornale lo orientarono più verso un percorso umoristico puro, più che proseguire sull’accidentata strada della satira politica.
La rivista ebbe subito successo, un successo ampiamente dimostrato dalle 350.000 copie settimanali vendute negli anni compresi tra il 1935 al 1940, dopo un inizio comunque lusinghiero che aveva visto bruciare tirature da 30.000, 35.000 copie.
In un articolo sul Marc’Aurelio, comparso sul settimanale Oggi” nel 1959, che comprendeva anche un’intervista a Walter Faccini, uno dei protagonisti di quella avventura , raccontava:
“Attorno a De Bellis, insuperabile coordinatore, si era radunato un cast d’eccezione, formato da Mosca, Attalo, Metz, Barbara, Simeoni, Vargas, Vincenzo Rovi e Alberto Cavaliere. Del sodalizio Walter (Faccini) era il più turbolento e il più squattrinato.
Era diventato l’incubo dell’amministratore Ettore Lupo, che per toglierselo dai piedi lo cacciava via puntualmente ogni mese, ed il pupillo di De Bellis che altrettanto puntualmente lo riassumeva il giorno dopo.
A quel tempo Walter traeva i motivi delle vignette dalla Roma fascista.
Al Marc’Aurelio tirava vento di fronda: si può dire che ogni settimana venivano composte due edizioni del giornale: una interna e redazionale, nella quale si irridevano agli orbaci, ai “fatali destini” e alle “folle oceaniche” e un’altra, addomesticata e rabbiosamente conformistica, che era poi quella che veniva stampata e messa in vendita”.
Di questa tendenza, del resto non troppo segreta, al dissenso, si accorse anche il competente ministero fascista, così, già un anno dopo la fondazione della rivista, Cotone, ritenuto troppo poco riverente, venne costretto a dimettersi e a vendere la proprietà del giornale ad un avvocato, Alberto Lupo, considerato molto più affidabile.
De Bellis, al contrario dell’altro fondatore, rimase al suo posto.
Intanto il Marc’Aurelio, come si dice, tirava: il successo riportato dal periodico, contribuì a fare di esso un fenomeno sociale, tanto che alcuni personaggi delle sue satire di costume, come il “Gagà” o “Genoveffa la racchia”, entrarono velocemente a far parte del linguaggio corrente, finirono nei modi di dire quotidiani.
Come spesso avviene, il giornale, oltre ad avvalersi dell’opera di famosi scrittori e disegnatori, ebbe anche la funzione di fare da palestra ad esordienti di talento: molte rubriche del “Marc’Aurelio” vennero, ad esempio, ideate e curate dal diciottenne, Federico Fellini, che iniziò a collaborarvi in veste di disegnatore satirico e caricaturista.
Divennero celebri le sue “Storielle di Federico”, che venivano raccontate in varie sequenze da lui illustrate.
L’arco di attività del periodico non fu comunque lunghissimo: la rivista andò avanti fino al 1943, anno in cui cessarono le pubblicazioni.
Dopo la Liberazioni ci furono diversi tentativi di riesumare il Marc’Aurelio.
Nel 1955 l’editore Corrado Tedeschi ne acquistò la proprietà, trasferì a Firenze la redazione e portò avanti la nuova pubblicazione fino al 1958.
Quel periodo non aggiunse nulla di particolarmente significativo alla storia del giornale se non che quegli anni furono caratterizzati dalla collaborazione di gente come Castellano e Pipolo, che fecero fortuna come autori televisivi e cinematografici, e come Ettore Scola, destinato ad una luminosa carriera di regista.
Il successo di cui godette per anni il “Marc’Aurelio”, indusse qualche anno dopo la Casa editrice Rizzoli a pensare di varare una propria rivista umoristico satirica.
Il progetto, pensato fin dal 1935, venne affidato ad un importante intellettuale, scrittore, sceneggiatore ed umorista: Cesare Zavattini.
Convintissimo, lo scrittore si mise all’opera: “Faremo un giornale e la gente farà a pugni per comprarlo”.
Mancava ancora il nome della testata: il primo pensato da Zavattini, “Valà che vai ben”, venne subito cassato, ma l’eccitazione per il progetto rendeva il clima del primo nucleo redazionale febbrile di esaltazione.
Cominciò una intensa “campagna acquisti” e vennero così chiamati a raccolta alcuni dei migliori illustratori ed umoristi del periodo, anche dei collaboratori soffiati al Marc’Aurelio, come Metz e Faccini.
La rivista venne battezzata “Il Bertoldo” ed esordì il 14 Luglio del 1936; alla sua direzione c’era Zavattini.
Il giornale si affermò subito in virtù del suo stile del tutto innovativo, nuovo per la vignettistica italiana.
Un’aria di anticonformismo, di leggerezza e di umorismo surreale si contrapponeva al tono paludato della stampa di quell’epoca.
In redazione si respirava un’aria altrettanto lieve: il gruppo dei redattori sembrava refrattario alle regole e agli orari dell’ufficio.
Nel suo bel libro “Gli anni verdi del Bertoldo”, rievocativo di quell’avventura editoriale, Carletto Manzoni racconta:
“Gli impiegati ci guardano con sgomento quando scendiamo a prendere il caffè durante le ore di lavoro. Bisogna rispettare l’orario. Un giorno io e Metz troviamo l’amministratore che ci sbarra il passo in cima alla rampa delle scale. Il signor Ferrazzuto tira fuori l’orologio dal taschino del panciotto: “Sono le dieci e un quarto” dice. “Appena le dieci e un quarto? – dice Metz – Allora andiamo a prendere un caffè». Volta le spalle all’amministratore e scende le scale. Io gli vado dietro…”.
La vivacità del Bertoldo, che pure andava forte, non riusciva tuttavia ad impensierire più di tanto il suo maggior concorrente: il “Marc’Aurelio” seguitava a prevalere nelle vendite.
La contromossa del “Comenda” Rizzoli fu semplicissima: acquistò la rivista, così se pure le due testate non vennero mai unificate, da quel momento prese il via uno scambio di collaboratori che produsse ottimi risultati.
Risultati tali da far parlare oggi di un’unica scuola di umoristi. Nomi quali Steno, Fellini, Giovanni Mosca, Carletto Manzoni, Attalo, Giaci Mondaini e quelli di tanti altri ancora, come Giovannino Guareschi, caporedattore e uomo d’ordine all’interno di quel gruppo anarcoide nelle abitudini.
Le sue “vedovone”, insieme con gli omini un po’ matti di Mosca, la rubrica “Bertoldo” e le piccole follie di Manzoni imposero, come si è detto, un umorismo lieve e surreale che a differenza di quello deciso e coraggioso del “Becco Giallo”, la rivista chiusa dal regime fascista un decennio prima, si teneva fuori dalla politica.
A pochi anni di distanza dalla sua fondazione, Zavattini si dimise dalla direzione per contrasti con la casa editrice.
Per qualche tempo il comando del “Bertoldo” fu affidato alla coppia Mosca – Metz, ma quella coabitazione non durò molto: Giovanni Mosca rimase direttore unico, coadiuvato da Guareschi, già citato come caporedattore.
Arrivarono gli anni di guerra e fu proprio a causa di un bombardamebnto alleato che colpì la sede del giornale in Via Carlo Erba a Milano, che le pubblicazioni cessarono definitivamente.
Subito dopo ci fu un tentativo di riesumarlo e di farne un foglio di propaganda filonazista: Giovannino Guareschi, già internato in Germania, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e di collaborare coi nazifascisti, facendo così naufragare quel progetto.
Nel dopoguerra, dal 1952 al 1953, la rivista riprese ad uscire come mensile, ed in formato tascabile.
Diretto da Sveno Tozzi “Il Bertoldo” raccolse il contributo di molte personalità del mondo dello spettacolo, come Renato Rascel e Mario Riva e pubblicò racconti di Festa Campanile, Fellini e Metz, oltre a quelli di grandi scrittori stranieri classici, come Mark Twain o Anton Cechov.
La rivista in quei pochi anni aprì anche al mondo dei fumetti, ospitando tavole di Al Capp, di John Stalnley e di Bushmiller.
L’ultimo tentativo di rilanciare il giornale venne fatto negli anni Sessanta da parte dell’editore Sansoni, ma le pubblicazioni si conclusero nel 1966.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.