Vasto e oscuro è l’oceano delle testimonianze che i sopravvissuti alla Shoah sentirono il dovere di regalare all’umanità perché fosse tramandata la conoscenza del più orrendo e scientifico genocidio mai perpetrato nella storia deell’uomo.
Questa operazione, che per quasi tutti loro è stata dolorosissima, ha permesso però a generazioni di persone di prendere coscienza di ciò che l’uomo può arrivare a fare all’uomo, trasmettendo la memoria di orrori enormi, costruiti su fondamenta assurdamente deboli: convenienza di pochi, ignoranza di massa, sfruttata cinicamente, e stupidità collettiva. Quello che ci hanno consegnato i “salvati” è stato un dono di valore inestimabile: uno dei possibili antidoti contro la banalità del male, contro l’ottusità della ferocia, contro la ricorrente pulsione, idiota e conformista, alla discriminazione.
Ci hanno fornito insomma uno strumento formidabile per non ricreare, consapevolmente o meno, le stesse condizioni culturali, civili e politiche che permisero che fossero commesse terribili atrocità.
Violenze inaudite subite da loro e da milioni di innocenti, quelli che non ce la fecero, ai quali i sopravvissuti, con infinita sofferenza, hanno prestato la voce.
I racconti dei salvati, necessariamente, hanno tutti in comune la dettagliata narrazione delle condizioni di totale disumanità in cui, per motivi insensati, vennero a trovarsi.
Sono documenti vivi e sconvolgenti, che restituiscono il puzzo della brutalità ottusa dei loro carnefici, della pretesa scienza di certi sperimentatori disumani e dell’idea folle che, standone alla base, ne manovrava le azioni.
In questo universo narrativo fosco, nel quale la descrizione della realtà dei fatti riesce a superare la più scatenata e malata delle fantasie, qualche documento, per sua natura, si stacca dagli altri, suona diverso, ma non per questo meno efficace.
L’esempio più famoso e toccante di questo genere di narrazioni, è senz’altro il “Diario” di Anna Frank.
Quelle della sfortunata ragazzina, una scrittrice nata, sono pagine che testimoniano bene l’incredulità per una condanna comminata ad un intero popolo su base esclusivamente etnica, lo stupore per i suoi assurdi presupposti.
Viviamo con lei la tensione del terrore quotidiano, la noia di interminabili giornate da reclusi ammassati in uno spazio limitato, ma incontriamo anche la freschezza degli slanci e dei sogni di una adolescente.
Uno stillicidio comunque, la vita in quel nascondiglio di Amsterdam, un carcere subito senza aver commesso alcun reato, con addosso la paura che la delazione di un qualsiasi “bravo cittadino” conducesse i reclusi ad un orrore ancora maggiore.
Gli appunti quotidiani di Anna Frank sono divenuti un patrimonio della memoria dell’intera umanità e sono stati letti da milioni e milioni di persone attraverso varie generazioni.
Nel turbinio delle vicende legate alla Seconda Guerra Mondiale e della Shoah, ci sono tuttavia anche altre storie sconosciute e particolarissime, per le quali il puro caso, le risorse umane, oppure la combinazione di entrambi i fattori, hanno scritto sceneggiature tanto estreme da apparire incredibili.
E’ il caso, ad esempio, di una vicenda che il suo protagonista, Solomon Perel, detto Sally, ha raccontato in un fortunato libro testimonianza, trasposto poi anche sul grande schermo col medesimo titolo: “Europa Europa”.
Perel nacque il 21 aprile del 1925 a Peine, in Bassa Sassonia, da una famiglia ebrea tedesca.
Figlio di negozianti di scarpe, visse la prima infanzia serenamente, almeno fino all’ascesa di Hitler al potere.
Quando, in seguito alle sue indicazioni, la persecuzione tedesca nei confronti degli ebrei si fece sistematica e quasi insopportabile, la famiglia Perel decise di emigrare.
Nel 1935, dopo che il loro negozio venne saccheggiato e che Solomon fu espulso dalla scuola, si trasferirono tutti a Lodz, in Polonia, dove viveva una loro zia.
Nel 1939 i tedeschi invasero la Polonia, dando inizio al conflitto.
La famiglia si ritrovò nella stessa situazione vissuta in Germania.
Solomon e suo fratello Isaak tentarono di fuggire nella parte polacca occupata dalle truppe sovietiche.
Si divisero quasi subito: Isaak si diresse verso Vilnius, in Lituania, Sally rimase in Polonia e trovò ospitalità in un orfanatrofio a Grodno.
Con l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, Perel, sotto la spinta delle armate naziste, fu costretto a fuggire anche dall’orfanatrofio e poco dopo, sbandato, fu catturato da un’unità dell’esercito tedesco.
In questa situazione, potenzialmente letale, la sua prontezza si trasformò nella sua salvezza, sia pure ad un prezzo molto elevato.
Essendo di madrelingua tedesca, Sally riuscì a convincere gli ufficiali dell’esercito del Reich che lo avevano catturato, di essere un volksdeutscher, ovvero un tedesco che aveva vissuto fuori dalla Germania e che era stato preso e tenuto prigioniero dai bolscevichi russi.
Solomon divenne Josef Parjell, Yop per gli amici.
Incredibilmente gli diedero retta: venne creduto una vittima tedesca della brutalità comunista e divenne la mascotte di un corpo di blindati.
In un primo tempo partecipò ad alcuni significativi eventi della campagna tedesca in Unione Sovietica e fu utilizzato anche come interprete russo tedesco.
Ma il corso della sua storia, già straordinaria, stava per conoscere nuovi e inimmaginabili colpi di scena.
Il comandante della sua unità, un uomo che lo aveva preso a benvolere, per tenerlo protetto fece addirittura dei piani per adottarlo, poi, per completarne la formazione personale, lo spedì in un collegio della Gioventù Hitleriana, non distante dalla città in cui Sally era nato e cresciuto.
Era un posto esclusivo, per rampolli di buona famiglia o pupilli di gerarchi nazisti.
In quel contesto, la sua situazione si fece ancora più paradossale: Solomon veniva educato proprio a quel credo malato che, in quanto ebreo, avrebbe voluto annientare lui e la totalità dei suoi confratelli.
In occasione di una delle frequenti conferenze che i giovani nazisti erano tenuti ad ascoltare, uno dei professori incaricato della propaganda razziale, indicandolo all’intero uditorio dei suoi compagni, disse:
“Guardate bene Josef. E’ il tipo classico della razza orientale baltica”.
Così, in un solo istante, diede a Sally la patente di ariano puro e, contemporaneamente, fece scempio delle sue presunte teorie scientifiche”.
La vita di Perel, come è facilmente immaginabile era costantemente intrisa di ansia.
Essendo circonciso, viveva in un continuo stato di allarme: la vita cameratesca che era obbligato a fare, poteva smascherarlo, nel corso di una banale doccia o in qualsiasi altro momento, se avesse abbassato la guardia anche per un istante.
La tentazione di fuggire non trovò mai occasioni sufficientemente praticabili e lui si trovò a vivere una temeraria recita quotidiana, trovandosi in situazioni così paradossali da sembrare surreali, come quando, vestito con l’uniforme della Gioventù Hitleriana, camminò per le vie di Lodz che gli erano familiari per avervi vissuto qualche anno da ragazzo ebreo.
Nel ghetto, pur non potendo segnalarsi, sentiva acuta e dolorosa la presenza e la mancanza di sua madre.
In preda a un impulso sconsiderato, che non seppe trattenere, arrivò anche a prendere il treno per tornare a Peine.
Era l’ennesimo azzardo in un contegno solitamente prudentissimo: non poteva farsi riconoscere nel suo paese natale, e d’altronde, con l’uniforme che indossava e la fascia con la svastica al braccio, non era facile che qualcuno ci riuscisse.
Tornando in quel luogo dell’infanzia, la memoria gli si affollò di ricordi.
Quando si fermò davanti alla vetrina di un laboratorio fotografico, l’animo gli si appannò per il dolore e per il rimpianto: quello era stato il negozio di famiglia.
Sulle mensole della vetrina, al posto delle scarpe d’un tempo, erano poggiati ritratti di ufficiali della Wehrmacht abbracciati a moglie e figli.
La recita di Perel proseguì ancora per un bel po’ di tempo, segnata da tensioni quasi insopportabili e da rivelazioni sconvolgenti.
Il momento della doccia era quello in cui la paura si faceva più oppressiva e le cautele dovevano essere necessariamente ferree.
Entrava nella doccia con le mutande e dopo averle sfilate, usava subito il sapone per nascondere la zona circoncisa.
Terminate le saponette di importazione, dovette ripiegare su un prodotto analogo autarchico, un sapone che veniva chiamato Rip, che produceva però pochissima schiuma.
Sentiva i compagni maledire per questo quelle tavolette, imprecavano chiamandole “quel maledetto sapone ebreo”.
Sally seppe così che le lettere Rip stavano per “Reinjudenpaste”, “Pura pasta di ebreo” e dovette esercitare uno sforzo tremendo per occultare il profondo orrore che provò.
Molti anni dopo, intervistato dalla televisione israeliana, un sopravvissuto dichiarò di aver portato con sé in Israele un sapone Rip per seppellirlo, dato che era composto di migliaia di gocce di grasso di ebrei.
Nonostante la convinzione di Perel e dei suoi compagni del collegio per giovani nazisti, non è stato successivamente comprovata la produzione di sapone col grasso delle vittime dello sterminio.
Alcuni esemplari di quel prodotto, che veniva chiamato anche Rif, furono addirittura messi in vendita nel secondo dopoguerra come oggetto da collezione, ma la orrida storia del modo in cui venivano prodotte, smentita da molte fonti, anche ebraiche, rimane tuttora in bilico tra realtà e leggenda.
Sally Perel in quelle condizioni riuscì addirittura a vivere una storia d’amore con una ragazza, Leni Latsch, che faceva parte della Lega delle Ragazze Tedesche (BDM).
Naturalmente fu un amore romantico, le cui effusioni non potevano spingersi troppo in profondità.
Lui, pur essendo molto innamorato, non osò mai, fino alla fine della guerra, rivelarle che era ebreo.
Inspiegabilmente, questo segreto che gli era divenuto un fardello pesante, lo rivelò invece alla madre di lei, una vedova che, intenerita, non ne fece mai parola con nessuno, nemmeno con sua figlia.
Verso il termine del conflitto, la notte del 20 aprile 1945, alla vigilia del suo ventesimo compleanno, Perel venne catturato da un’unità dell’esercito americano: aveva l’uniforme tedesca indosso e con altri fu minacciato di fucilazione, ma risultò che quella era stata solo una forma di pressione psicologica.
Dichiarò allora la sua vera identità, rivelando di essere ebreo e raccontò ad un uditorio sbalordito la sua incredibile vicenda.
Fu rilasciato il giorno successivo.
Da quel momento iniziò la sua tenace ricerca dei familiari, di cui non aveva notizie da quando era fuggito da Lodz.
Tornato nel paese natale e svolte molte indagini, scoprì che suo fratello Isaak era vivo, che si era sposato e viveva a Monaco di Baviera con la moglie Mira, la quale era al termine di una gravidanza.
Sally lo raggiunse e visse con lui per qualche tempo.
Quel che apprese da Isaak fu assai duro da sopportare: suo padre, come era capitato a tanti, era morto di fame nel ghetto, sua madre era stata soppressa in una camera a gas e sua sorella era stata uccisa durante una delle cosiddette “marce della morte”.
Seppe però, con gioia, che David, l’altro suo fratello, era sopravvissuto e che viveva in Palestina.
Nel 1948 Sally decise di seguirlo e salpò alla volta di Haifa.
In Israele Perel combattè nel corso della guerra che avrebbe portato alla nascita di quello Stato.
Congedatosi dall’esercito, divenne in seguito un uomo d’affari.
Solo dopo quarant’anni di travaglio interiore, si decise a raccontare la sua storia.
Visse sempre interrogandosi con domande dalla risposta quasi impossibile a darsi, domande che riportò nel suo libro “Europa Europa”, nel quale, come si è già detto, ha racchiuso per intero la sua testimonianza:
“Avevo io il diritto di paragonarmi a coloro che erano scampati alla Shoah? Avevo il diritto di associarmi alla loro storia, di mescolare i miei ricordi ai loro?…”.
Solomon Perel è tornato in Germania una sola volta, nel 1985, invitato dal sindaco di Peine, la sua città di origine, per prendere parte alla commemorazione della distruzione della Sinagoga del paese.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.