Chi ha avuto il privilegio di conoscere Praga, una delle più belle, evocative ed affascinanti città europee, ha senz’altro visitato il vecchio e caratteristico cimitero, posto nei pressi delle sinagoghe dello Josefov, il quartiere ebraico della capitale céca.
La ghettizzazione degli ebrei, che pure a Praga avevano vissuto periodi più felici del consueto, aveva costretto la comunità, in presenza del divieto di eccedere il perimetro assegnatogli, a sfruttare lo spazio verticale per ovviare alla esiguità dell’area concessagli per le proprie sepolture.
Le tombe si erano così accatastate una sull’altra, su più livelli, e solo quelle che rimanevano in superficie potevano vantare delle lapidi che ricordassero il nome dei defunti.
Oggi quel fenomeno, che in realtà testimoniava la coercizione subita da una precisa fetta del popolo praghese, ha trasformato il vecchio cimitero ebraico in un luogo affascinante e suggestivo: alti alberi di sambuco con le loro fronde verdi ombreggiano le lapidi mal conficcate e sbilenche che affiorano disordinatamente in superficie, disegnando i confini di un piccolo spazio romantico. che si può facilmente immaginare spettrale dal tramonto in poi.
Dal XV secolo in poi, e per trecento anni a venire, quello fu l’unico posto dove gli ebrei potevano seppellire i loro morti e le sue dimensioni attuali corrispondono a quella che era la sua area in epoca medioevale.
Le lapidi visibili testimoniano il succedersi degli stili nel tempo e appaiono tardogotiche, rinascimentali, barocche e sono coperte o attorniate dai piccoli sassi che nella devozione ebraica prendono il posto dei fiori.
Nessuna di esse presenta l’immagine del defunto, cosa vietata dalla tradizione ebraica, ma gli strumenti di lavoro che frequentemente vi sono incisi, rimandano al suo lavoro o alla sua professione: forbici per chi faceva il sarto, pinzette per chi era medico, mani benedicenti per i rabbini, e, curiosamente, immagini di animali per chi aveva un cognome corrispondente al nome della stessa bestia. Un po’ come se noi disegnassimo una volpe per chi si chiama Volpi o Volpe oppure un orso per chi fa Orsi di cognome, e così via.
Attualmente il vecchio cimitero ebraico di Praga conta circa 12.000 lapidi, ma si pensa che nel corso del tempo vi furono inumate oltre centomila persone, da Avigdor Kara, la cui lapide datata 1439 è la più antica, fino ad arrivare alla sepoltura testimoniata dalla lapide più recente, quella di Moses Beck, che risale al 1787.
Una tra tante tombe, sempre ben coperta di sassi devozionali, è ancora oggi la più visitata del cimitero, e presumibilmente anche in passato è stata oggetto di particolare attenzione e devozione: è quella di Rabbi Löw, il rabbino creatore del misterioso Golem, protagonista della più famosa leggenda ebraico praghese.
Il Golem è un gigante di argilla che secondo la tradizione può essere modellato da chi ha una grande conoscenza della Qabbalah e del potere dei nomi di Dio.
Nella leggenda originale questo abbozzo umanoide, una volta modellato ed evocato da una combinazione precisa di lettere, sarebbe in grado di prendere vita e di divenire forte e ubbidiente, svolgendo lavori pesanti e divenendo un difensore della comunità ebraica.
Evidente è il legame del Golem con la tradizione esoterica legata all’alfabeto ebraico, alle Sefirot, emanazioni divine e, in sostanza, alla importanza speciale che quel popolo riserva alla parola scritta.
Secondo la tradizione il Golem è fornito di una forza sovraumana e, prono alla volontà del suo creatore, diviene un servo capace solo di ubbidire senza comprendere, senz’anima.
Tracce della esistenza dei Golem si possono rintracciare già nell’opera di Ahimaaz ben Paltiel, un cronista medioevale del XII secolo, il quale racconta che cento anni prima un rabbino di Bagdad, Ahron, aveva scoperto un golem, al quale era stata data vita eterna per mezzo di una pergamena.
Lo stesso Ahimaaz narra che, sempre durante il secolo a lui precedente, a Oria, una città del brindisino nota per la sua comunità ebraica, viveva un gruppo di sapienti in grado di creare dei golem. Il racconto medioevale riporta che questi rabbini smisero di fabbricarli per un’ammonizione divina.
La successiva testimonianza sul Golem è appunto quella che ci riporta a Praga, a quella tomba assai venerata nel vecchio cimitero ebraico e alla figura del rabbino Jehuda Löw ben Bezalel che vi è sepolto.
Si narra che questo grande sapiente, vissuto a Praga nel XVI secolo, fosse in grado di creare golem, usandoli come servitori.
Li plasmava con l’argilla e gli dava vita scrivendo la parola “emet”, verità, sulla loro fronte.
La leggenda, partendo da questo dato, si sviluppa tuttavia in più narrazioni divergenti.
Secondo una delle versioni, molto conosciuta, questi colossi antropomorfi divenivano sempre più grandi, tanto che il rabbino aveva difficoltà a servirsene.
Di tanto in tanto, quindi, Löw, cancellando la prima lettera della parola usata per crearli, ne mutava il significato: emet diveniva così “met”, che in ebraico significa “morto”.
Il gigante a quel punto si sfaldava, annullandosi.
Un giorno tuttavia uno di questi golem era del tutto sfuggito di mano al suo creatore, dandosi a distruggere ogni cosa si veniva a trovare sul suo cammino. Dopo aver ripreso a stento il controllo della creatura, Rabbi Löw decise di non usare più i golem, nascondendoli per sempre nella soffitta della bellissima Sinagoga Vecchia–Nuova di Praga, luogo nel quale ancora oggi riposerebbero.
A questa versione un po’ horror della leggenda si ispirò lo scrittore ed esoterista Gustav Meyrink per il suo “Der Golem”, il romanzo che scrisse nel 1915, e che, intrecciando la narrazione con una storia a lui contemporanea, fa riemergere e descrive appunto la mitica figura del colosso di Löw come una sorta di Frankenstein, che avendo una vita solo provvisoria, scatena in poche ore tutta la sua forza distruttiva.
Anche il cinema ha utilizzato la celebre leggenda ebraico praghese: il regista Paul Wegener, autore negli anni Venti del Novecento di film espressionisti, trattò la materia nel film muto “Der Golem”, girato nel 1915, e nell’altro “Der Golem, wie er in die Welt kam” del 1920.
Indubbia l’influenza di questa versione della leggenda anche sul “Frankenstein” di Mary Shelley e sui film ad esso ispirati, come nel caso del “Frankenstein” di James Whale, del 1931.
Un esempio di figura assimilabile al golem si può trovare nel racconto “Il servo” di Primo Levi e la si rintraccia anche come protagonista di alcuni famosi videogiochi.
In generale, non è scorretto definire il colosso creato da Rabbi Löw come il primo prototipo dell’androide, personaggio comparso successivamente in infinite opere letterarie e cinematografiche.
Recentemente, una bellissima versione della leggenda, raccontata dal Premio Nobel Elie Wiesel in un libro pubblicato dalla casa editrice La Giuntina di Firenze, specializzata in letteratura ebraica, la riporta al suo senso originario.
Yossel il muto, il golem evocato dal grande rabbino è un essere intelligente, sensibile e compassionevole, creato per difendere una comunità di persone da sempre perseguitata e decimata:
“Io, Reuven, figlio di Yaakov, dichiaro sotto giuramento che “Yossel il muto”, il “Golem fatto d’argilla”, merita di essere ricordato dal nostro popolo, dal nostro popolo perseguitato e assassinato eppure immortale. È un nostro dovere nei suoi confronti evocare il suo destino con amore e gratitudine”.
Sostando tra gli alberi del vecchio cimitero di Praga, che trattiene tanta della magia di quella città, e fermandosi davanti alla tomba del grande rabbino Löw, tra le lapidi che si sono stratificate per tre secoli su quel piccolo pezzo di terra, e che affiorano disordinatamente sotto i nostri occhi, non è difficile, anche oggi, lasciarsi suggestionare dalle vecchie leggende ed intravedere una figura grande e indistinta aggirarsi tra i vicoli freddi bui delle viuzze dell’antico quartiere ebraico.
L’impressione è che il difensore delle comunità ebraiche si farà sempre trovar pronto nel caso che le vecchie, barbare persecuzioni dovessero riprendere.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.