Chiunque abbia contratto la fertile passione per la lettura sa perfettamente che per coltivarla, oltre che dei normali canali di diffusione dei libri, ci si serve, e funziona benissimo, anche di un veicolo di trasmissione antico, basato sulla fiducia: il passaparola.
Spesso, infatti, le vetrine delle librerie, sempre più affollate di titoli, sempre simili tra loro e ai supermercati, per via dell’offerta standardizzata che propongono, e sempre meno legate al lavoro ben fatto di veri librai, risultano, in sostanza, attraenti fino ad un certo punto.
Ecco dunque capitare che molte opere, più ancora che in virtù di buone recensioni, viaggino sulle ali di letture già fatte da amici o conoscenti che, da esse conquistati, le consigliano senza riserve, finendo per esercitare sugli altri una specie di benefico contagio.
Succede quindi che alcuni romanzi poco recensiti, dai quali non ci si aspetterebbe nulla di sensazionale, vedano di colpo e progressivamente, innalzarsi le vendite, che impennandosi senza un motivo apparente, fiiniscono per farli comparire nei posti alti delle classifiche specializzate.
Escludendo l’esplodere saltuario di un “caso” legato a questo o quell’altro libro, quel motivo, nove volte su dieci, coincide con una lunga catena di consigli che si irradiano nel territorio come si stendono le nuvole, accettati da tantissime persone sulla base della fiducia in chi gli propone quei titoli.
Mi è sempre capitato di darne, di queste indicazioni di lettura, ma abbastanza spesso mi succede anche di riceverne, con esiti ineguali, ma sempre con gratitudine verso chi me le regala.
Anche recentemente mi è successo di leggere un libro su consiglio di un amico a me carissimo, che per via del nostro antico affetto, nel suo entusiasmo e nella voglia di trasmettermelo, ha spinto la sua gentilezza fino al punto di spedirmi il libro che tanto lo aveva convinto.
Si trattava del romanzo di uno scrittore americano che non conoscevo, Kent Haruf: “Canto della pianura”.
Voglio premettere che da sempre nutro una certa diffidenza verso la letteratura americana contemporanea che, incapace di essere all’altezza delle opere dei grandi delle generazioni precedenti, mi pare oggi invischiata in un troppo generico piagnisteo per le asprezze di una società soprattutto metropolitana, in sostanza disumana, strozzata dalla implacabilità delle leggi di mercato, dalla vuotezza dei modelli di vita diffusi, da squilibri vertiginosi ed, in generale, dalla ferocia che deriva da quei comandamenti immutabili.
Una letteratura, insomma, ferma alla sola denuncia delle conseguenze quotidiane dell’impostazione ultraliberistica dell’economia americana, ma incapace di elaborare un’idea differente di società, di immaginare un sogno alternativo al tanto squallore descritto.
Mi è chiaro, e ne sono perfettamente cosciente, quanto questa mia visione sia incompleta e quanto mi si confaccia, nella sua orgogliosa arbitrarietà, così non mi dispiace troppo quando qualche libro viene a disturbarne i presupposti, incrinandondoli con la forza della sua qualità.
“Canto della pianura” di Kent Haruf, letto quasi subito dopo averlo ricevuto, è stato per me uno di questi “inciampi”, di questi messaggeri del dubbio.
Il romanzo infatti non è ambientato in una qualsiasi delle immense e stridenti megalopoli statunitensi, ma in quel microcosmo che la narrazione che ci viene fatta dell’America, narrazione giornalistica oltre che letteraria, trascura del tutto.
A noi europei, infatti, parlano solo New York, Washington, Los Angeles, Chicago, San Francisco e altre realtà della stessa portata : Haruf, al contrario, ci parla d’altro, racconta un mondo differente.
Evoca un cosmo che non solo esiste, ma che è l’asse portante di un modello di vita del tutto diverso da quello metropolitano, un genere di esistenza che, diffusissimo fisicamente e culturalmente, finisce per contare molto.
E’ la “pancia” degli Stati Uniti, il mondo dei piccoli centri rurali, quello dei coltivatori, dei piccoli negozianti e degli allevatori, già illustrato dalla generazione degli Steinbeck, dei Faulkner e dei Caldwell.
Per i suoi romanzi Haruf ne ha inventato uno, il borghetto di Holt, sintesi immaginaria dei posti in cui ha vissuto, soprattutto nelle pianure del Colorado orientale, ma assolutamente paradigmatica di tutti i centri consimili, che di quella estesissima “pancia” sono l’espressione.
La prima cosa che nel romanzo colpisce il lettore, è lo stile della scrittura, asciutto fino ad essere scabro, ma, proprio per questo, estremamente evocativo ed incisivo.
E’ un modo di scrivere particolarmente adatto a farci intuire la psicologia dei personaggi e la tela dei loro rapporti esclusivamente attraverso i fatti narrati e tanti dialoghi.
Non diversamente da quello che accade nei nostri paesini, gli uomini e le donne che abitano Holt sono legati, infatti, dall’appartenere imprescindibilmente a quella piccola realtà sociale: si conoscono tutti tra loro e la presenza anche di un solo “forestiero” in quell’ambito, diviene immediatamente vistosa.
Al contrario però di ciò che ci capita quando leggiamo libri ambientati nei nostri paesi, tutti vicini tra loro e coesi in una rete di relazioni di lontane origini mediovali, percepiamo Holt come un’isola in un mare molto più vasto, sentiamo la distanza che la separa da centri più grandi, ed è una distanza più culturale ed emotiva, che fisica.
Ogni capitolo del romanzo è dedicato ad un singolo personaggio, del quale, per via della ciclicità di queste frazioni narrative, seguiamo la storia fino al termine del libro.
Impariamo così a conoscere Tom Guthrie, che insegna storia e che deve occuparsi dei due figli a causa della depressione che tiene sua moglie reclusa nella camera da letto; Victoria, una sedicenne rimasta incinta in seguito al suo primo amore per un delinquentello di una città vicina o i fratelli Mac Pheron, allevatori avvezzi unicamente alla reciproca compagnia e a quella delle loro vacche, che avranno però la capacità e la sensibilità di accogliere una vita nuova, e infine Maggie Jones, una donna decisa ma priva delle tipiche durezze locali, pronta a spendere a pro degli altri il suo protettivo senso materno.
Uomini e donne descritti all’osso in un contesto minuscolo, che in quel piccolo centro rende le loro relazioni tanto strette quanto rarefatte, considerando i grandi spazi circostanti, essenziali ma capaci del tipico controllo sociale delle realtà consimili.
L’efficacia dello stile, così duro e conciso in Haruf, alla quale si è già accennato, risulta la migliore arma per spingere la curiosità del lettore fino al termine del romanzo, lasciandola ciò nonostante insoddisfatta: si vorrebbe infatti rimanere ancora per molto in compagnia di quella umanità.
Il romanzo “Canto della pianura”, è la seconda parte di una “Trilogia” interamente ambientata a Holt, trilogia che lo stesso autore ha definito “slegata”, che può essere cioè affrontata da ciascun lettore nell’ordine che preferisce, un’opera iniziata con “Benedizione” e terminata con “Le nostre anime di notte”, cosa questa, che credo mi spingerà a leggerla per intero.
Tutta la poetica dello scrittore presenta le medesime caratteristiche tematiche e stilistiche presenti nella trilogia.
Intanto converrà gettare un rapido sguardo alla vita ed alla carriera di questo autore, da noi poco conosciuto.
Haruf è nato nel 1943 a Pueblo, nel Colorado, da un padre pastore metodista e da una insegnante.
Si è laureato nel 1965 alla Nebraska Wesleyan University e subito dopo ha trascorso due anni in Turchia, al seguito di un corpo di pace, insegnando inglese ai bambini delle scuole medie.
All’epoca della guerra del Vietnam si è rifiutato di combattere e in qualità di obiettore di coscienza ha lavorato prima in un ospedale riabilitativo a Denver, poi in un orfanatrofio.
Non ha potuto immediatamente darsi all’attività letteraria: la necessità di mantenersi lo ha portato a svolgere in posti diversi, svariati lavori: bracciante agricolo nel Colorado, operaio edile in Wyoming, assistente in una clinica, sempre in Colorado, bibliotecario nello Iowa ed infine docente universitario in Nebraska e nell’Illinois.
Tutte queste attività si sono protratte nel corso di svariati anni.
Nel 1973 si è trasferito in Iowa con la moglie e la figlia, tentando di iscriversi al prestigioso corso Writers Workshopo della locale Università, per poter assistere alle lezioni di importanti scrittori, come John Irving, Seymour Krim e Dan Wakefield.
In un primo tempo la sua domanda è stata respinta ma, ostinatamente, Haruf si è trovato un lavoro come bidello nella stessa istituzione per poi essere finalmente accettato nel corso che gli premeva frequentare.
Dopo aver conseguito il Master of Fine Arts ha lavorato in una scuola superiore a Madison, nel Wisconsin, prima di trovare una cattedra come professore in una università del Nebraska.
Da questo momento in poi ha iniziato a pubblicare: è del 1982 il suo primo racconto, “Now (and then)”, poi, due anni dopo, è uscito un suo racconto sulla rivista letteraria Puerto del Sol. Sempre nel 1984 è apparso, per i tipi della Harper & Row il suo primo romanzo, “The Tie That Binds”, tradotto in italiano col titolo di “Vincoli: alle origini di Holt”, ricevendo il Whiting Award ed una menzione speciale della Hemingway Foundation Pen.
A questo punto della sua carriera Kent Haruf ha ricevuto un aiuto dallo scrittore John Irving, già suo docente, che mettendolo in contatto col suo agente letterario ha fornito un nuovo impulso al suo percorso.
Nel 1990 Haruf ha pubblicato un secondo romanzo “ Where you once Belonged” (“La strada di casa”).
Successivamente si è aperto per lui un periodo di difficoltà economiche: i figli in età scolare a questo punto erano tre, e le vendite dei suoi primi libri, pur apprezzati dalla critica, si sono rivelate modeste.
Fortunatamente la sua attività letteraria gli ha fatto raggiungere una posizione migliore in ambito accademico: dal 1990 ha lavorato alla Southern Illinois University Carbondale, trovando anche più tempo da dedicare alla scrittura.
Solo nel 1999, con “Canto della pianura, Haruf è arrivato alla vera notorietà: dalla tiratura più ampia, alle recensioni positive del New York Times ed altri quotidiani, fino ad un grande tour di promozione che ha toccato 15 città, tutto quello che è arrivato dal romanzo ha confermato il cambio di staus letterario dello scrittore.
Dal libro è stato tratto inoltre un film per la Televisione CBS.
Non sono mancati nemmeno riconoscimenti prestigiosi, come l’entrata nel novero dei finalisti del National Book Award e del New Yorker Book Award, così la sua situazione finanziaria si è fatta in quegli anni così tranquillizzante da permettergli di lasciare l’insegnamento per dedicarsi completamente all’attività letteraria.
Nel 2000 Haruf è rientrato nel Colorado, stabilendosi con la seconda moglie in una casa fatta di tronchi vicino alla città di Salida.
Nel 2004 ha pubblicato “Eventide” (“Crepuscolo”), seguito di “Canto della pianura”, romanzo che ha vinto il Colorado Book Award.
Nel 2014 Kent Haruf si è spento in seguito ad una grave malattia polmonare.
I suoi libri sono pubblicati in Italia dalla meritoria casa editrice NN, che conta di completare con le prossime traduzioni l’intera produzione dello scrittore.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.