Scorrendo con la memoria l’ormai lungo percorso delle mie esperienze letterarie, uno dei ricordi più nitidi che mi viene in mente è legato ad una estate di moltissimi anni fa.
Potevo avere diciassette o diciott’anni e per me, che avevo terminato gli studi dell’obbligo uscendo dal liceo, l’inizio della bella stagione manteneva ancora intatto quel senso di meraviglioso stupore che colora l’umore degli scolari quando si rendono conto davvero che per loro sta iniziando un periodo di assoluta libertà, una specie di licenza trimestrale di divertimento.
Per me divertirsi significava ovviamente godere di un’infinità di attività gratificanti: regolare i miei tempi secondo ritmi naturali, non condizionati da alcun orario, andare al mare e stazionarci insieme con la solita comitiva di amici con la prospettiva di intrecciare sguardi e chiacchiere con qualche ragazza, sperando nella benevolenza della sorte.
Divertimento allora era vivere in branco anche di sera, dilatando i confini del giorno fino a fargli toccare le prime ore di quello successivo.
Ma per me era fondamentale anche una forma di divertimento e di piacere assolutamente individuale, indivisibile con chicchessia: la possibilità, cioè, di leggere indisturbato, senza limiti di alcun genere.
Da che ho ricordi di me stesso, la lettura è stata per me un fatto naturale come il respirare, un piacere al quale, quasi fisicamente, non riuscirei mai a rinunciare.
Quella famosa estate, impossibile dimenticare una fortuna simile, divorai due capolavori assoluti nella stessa stagione: “Cent’anni di solitudine”, il romanzo di Garcia Marquez che stava rivelando al mondo la letteratura latino americana, e “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, acquistato per averne sentito parlare, non so da chi, come di un’opera straordinaria.
Non potevano essere più diverse quelle due opere, per epoca, stile, contenuti, ma le accomunava lo spargersi abbondante del tocco della magia nelle pieghe della trama.
Pur considerando “Cent’anni di solitudine” un vero capolavoro, non mi innamorai dell’intera produzione di Marquez, mentre “Il Maestro e Margherita” fu il primo e fondamentale tassello di un amore duraturo per il suo autore e per l’intera sua opera, arrivata a contrastare con una fantasia diabolica i grigiori del potere sovietico.
Sarà forse di stimolo per chi non l’ha ancora incontrato conoscere, sia pur brevemente, la vita e le opere di questo scrittore arrivato molto tardi, ma saldamente, alla fama che meritava.
Tanto più oggi, che per via dell’infausta guerra all’Ukraina, a causa di Putin e delle sue nefandezze, viene messa in discussione da parte di alcuni dotatissimi idioti l’opportunità di misurarsi con l’intera cultura russa, sarà il caso, quindi, di trattare un autore geniale, nato in Ukraina, che fu particolarmente colpito dalla repressione staliniana, fino a subire per decenni in patria una ingiusta damnatio memoriae.
Michail Afanas’ievic Bulgakov nacque a Kiev, città che allora era parte integrante dell’Impero Russo, nel maggio del 1891, da una famiglia di forte caratura culturale.
Suo padre fu infatti un ottimo professore di storia e critica delle religioni occidentali, che Michail, primo di sette fratelli, perse già a quindici anni. Conclusi gli studi di base si iscrisse alla Facoltà di Medicina, laureandosi con un certo ritardo, ma brillantemente, nel 1916.
Come spesso accadeva in Russia, terra in cui i matrimoni erano spesso precoci, Bulgakov si era nel frattempo già sposato con Tat’jana Nikolaevna Lappa.
Fresco di laurea venne spedito a Nilol’skoe, nel governatorato di Smolensk, a fare il dirigente medico dell’ospedale locale. Di fatto era l’unico medico che operasse in quella zona, così la sua attività doveva essere necessariamente frenetica.
Nei “Racconti di un giovane medico”, scritti in quel periodo, che testimoniano l’inizio della sua produzione letteraria, Bulgakov racconta che a Smolensk visitava come minimo cinquanta pazienti al giorno, svolgendo anche il lavoro di chirurgo.
Spostatosi poi a Viaz’ma, luogo in cui, dividendo l’incarico con due o tre colleghi, poté lavorare con ritmi meno faticosi, ebbe notizia della Rivoluzione d’Ottobre.
Nel 1918 tornò a Kiev, sua città natale, aprendo uno studio medico specializzato in dermotosifilopatologia. In quel periodo turbinoso in cui divampava la guerra civile, Bulgakov affermò di avere assistito ad almeno quattordici capovolgimenti di potere politico, un potere politico che lui, pubblico ufficiale, avvertì come troppo pressante e condizionante. Non è un caso che già allora cominciò a prendere in esame l’idea di lasciare la professione medica, dedicandosi alla scrittura.
Nel 1919, inviato a Vladikavkaz in qualità di medico militare, contrasse il tifo, non riuscendo per molto tempo a lasciare il Caucaso per via delle norme sanitarie relative alle malattie infettive.
La sua idea, invece, sarebbe stata quella di stabilirsi nella capitale o in grandi città che gli garantissero un orizzonte culturale più vasto, ma in seguito a quella disavventura di salute fu costretto, come si è detto, a rimanere sul posto.
Iniziò quindi una collaborazione con alcuni giornali locali e nel 1920 prese la decisione definitiva di abbandonare la professione medica.
Le entrate che l’attività letteraria potevano garantirgli erano però esigue, insufficienti, e per Bulgakov iniziò un periodo economicamente difficile. Per migliorare il suo stato finanziario arrivò anche a lavorare come comparsa negli spettacoli teatrali.
In quegli anni scrisse la prima versione de “I giorni dei Turbin”.
Nel 1921 si stabilì a Mosca riunendosi alla moglie.
Nel tentativo di trovare una sistemazione affidabile, dopo vari tentativi andati a vuoto, riuscì a trovare impiego come segretario presso la sezione letteraria del Commissariato del popolo all’istruzione pubblica e politica, ma quel lavoro presto venne meno.
Si gettò allora a collaborare con svariati giornali, scrivendo sui temi più disparati, stabilendo un rapporto, che si rivelerà importante, con una rivista berlinese in lingua russa, Nakanune.
In quegli anni prese a frequentare anche i sabati letterari organizzati da Evdoksija Nikitina e completò la stesura de “La guardia bianca”.
Quel romanzo però, non venne pubblicato per il trattamento, ritenuto dal potere sovietico troppo benevolo, che vi veniva riservato agli ufficiali dell’Armata bianca dei Volontari.
L’opera comparve poi a puntate sulla rivista Rossiia tra il 1924 e il 1925, mentre l’autore si dedicava ad una sua riduzione teatrale. Dopo il suo divorzio da Tat’jana, lo scrittore nel 1924 aveva sposato in seconde nozze Liubov’ Belozrskaja.
A Mosca frequentava salotti intellettuali, come quello di casa Zajaickij, dove incontrò un critico d’arte il cui suocero, uno zoologo, gli fornì ispirazione per l’indimenticabile personaggio del Professor Persikov, protagonista de “Le uova fatali”, uno dei romanzi brevi nei quali era più pungente la satira della prima società sovietica.
La sua costante e naturale tendenza a vedere il lato umoristico che si celava nell’inflessibile organizzazione del potere rivoluzionario, travalicava spesso in toni grotteschi, sfiorando spesso il sarcasmo.
Fu inevitabile che la censura sovietica iniziasse ad occuparsi stabilmente di lui. “Cuore di cane”, un altro brillantissimo romanzo breve, pungente e satirico, ebbe elogi dalla critica ma venne giudicato impubblicabile, “Diavoleide” fu ritirato dal commercio a pochi giorni dalla sua uscita e la piece teatrale tratta da “La guardia bianca” dovette essere più volte rimaneggiata e tagliata per avere il permesso di essere rappresentata.
Nel maggio del 1926 la casa di Bulgakov venne perquisita e i suoi diari vennero requisiti, un provvedimento che lo turbò moltissimo. Intanto, nonostante queste difficoltà, la fama dello scrittore cresceva, sospinta soprattutto dal suo lavoro di drammaturgo: “I giorni dei Turbin” e “L’appartamento di Zoja” furono due indubbi successi di pubblico, malgrado le recensioni negative della critica.
Fama o non fama, negli anni seguenti non ci fu un solo lavoro di Bulgakov che non incontrasse una ferma opposizione da parte delle autorità: tutte le sue opere ebbero problemi seri con la censura, che ne rese impossibile la circolazione.
“La fuga” una sua piece teatrale in cui accollava a tutte le parti in causa la responsabilità della guerra civile, fu messa in scena e ritirata più volte fino ad un fermo definitivo delle rappresentazioni, motivato con una sua pretesa “apologia del movimento bianco”; stessa sorte toccò a “L’isola scarlatta”, bloccata dopo un’iniziale autorizzazione alla messa in scena.
Quel 1928 per lo scrittore fu caratterizzato anche da due rilevanti vicende personali. Tentò infatti di riavere i suoi diari, e lo fece con molta decisione, chiedendo aiuto e appoggio anche a Gork’ij.
Purtroppo, non solo i suoi tentativi si dimostrarono vani, ma ricevette anche notizia del blocco definitivo della messa in scena de “La fuga”, opera definita antisovietica da Stalin in persona, che pure di Bulgakov era stato, all’inizio della sua carriera letteraria, un estimatore.
Nel febbraio dello stesso anno conobbe, innamorandosene, Elena Sergeevna Silovskaja, una donna sposata che per questo motivo era costretta a distruggere le lettere di Bulgakov non appena le aveva lette.
La donna, sin dal momento della sua comparsa nella vita dello scrittore, vi assunse una grande importanza.
Fu infatti la naturale destinataria delle confidenze dello scrittore ed è a lei che fu inviato il manoscritto de “All’amico segreto”.
Nel 1930 una critica insolitamente benevola paragonò “Il bagno di Majakovskij” a Moliere, e questo elogio fornì a Bulgakov nuovi stimoli per tornare al teatro.
Ispirandosi al grande commediografo francese scrisse “La cabala dei bigotti”, dedicandolo a Elena, ma lo stesso giorno in cui completò quest’opera gli venne notificato il divieto di messa in scena di ogni cosa da lui scritta fino a quel momento.
Le speranze di Bulgakov, ora tutte incentrate sul suo lavoro più recente, crollarono dopo l’ennesimo intervento della censura che negò la sua approvazione a metterlo in scena.
Per lo scrittore insomma la vita si era fatta durissima e alle difficoltà finanziarie si univa il peso morale di sentirsi un letterato osteggiato, respinto, messo in condizione di non poter godere dei frutti del suo lavoro. In una lettera a suo fratello scrisse di aver distrutto la minuta di un suo “romanzo sul diavolo”, una commedia e l’incipit di un altro romanzo. L’opera cui accennava era evidentemente “Il maestro e Margherita”, quello che sarebbe divenuto il suo capolavoro assoluto.
Il suo stato d’animo in quel periodo era naturalmente fosco e le speranze in un miglioramento della sua condizione erano talmente fievoli che Bulgakov si risolse a scrivere al governo dell’URSS chiedendo di poter espatriare, per evitare le uniche prospettive che al momento gli si presentavano: “Soltanto la miseria, il vagabondaggio e la morte”.
Subito dopo i funerali di Majakovskij, morto suicida, ricevette una telefonata da Stalin in persona, che come si è detto era stato un suo estimatore.
Il capo supremo gli preannunciò una risposta favorevole alla sua richiesta di espatriare ma gli chiese comunque di non lasciare la madrepatria e gli prospettò un incarico al Teatro Accademico dell’Arte di Mosca.
Bulgakov vi fu in effetti chiamato, con mansioni di attore e di regista.
Per il resto della sua vita gli fu sempre impedito di lasciare l’Unione Sovietica, anche per poter solo visitare i fratelli da sempre residenti all’estero.
Nel 1932 finalmente si sposò, in terze nozze, con Elena Sergeevna Silovskaja.
In quel periodo, l’incontro con Sergei Sergeevic Briuchonenko, uno scienziato che aveva tentato senza successo un avventuroso esperimento di trapianto di testa ad un cane, gli fornì l’ispirazione per il suo famoso romanzo breve: “Cuore di cane”.
Nel 1934 riprese il lavoro per “Il Maestro e Margherita”.
Nel 1936 fu assunto dal Teatro Accademico come librettista, e lasciò il suo impiego al Teatro Accademico dell’Arte.
Nei suoi ultimi anni completò il suo capolavoro, scrisse alcune commedie e altri lavori di critica e saggistica.
Morì nel 1940, a meno di 49 anni di età, per la stessa malattia che aveva stroncato suo padre, una nefrosclerosi.
Per oltre vent’anni, nessuna sua opera fu pubblicata nell’URSS, fino al 1961.
Poi per qualche anno ci fu una sua riscoperta che però risultò effimera.
Nell’era di Gorbaciov e della perestrojka venne finalmente pubblicato per la prima volta in URSS “Il Maestro e Margherita”, che all’estero era da tempo considerato uno dei capolavori letterari del Novecento.
La pubblicazione del romanzo fu un evento e finalmente crebbero in patria l’interesse e la considerazione per Bulgakov, che andò ad occupare il posto che gli spettava nella grande assise della Letteratura russa.
Figlio letterario di Gogol, lo scrittore contrappose una fantasia indiavolata e le punture acuminate e divertenti della satira, alle angustie muffite di un potere chiuso, custodito da una pletora di grigi burocrati.
La sua opera, micidiale nel denunciare gli aspetti grotteschi e paradossali delle costruzioni politico amministrative messe in piedi da noi umani, ha influenzato, direttamente o indirettamente, un gran numero di scrittori, russi e non, delle generazioni successive alla sua.
Ad uno di essi, Sergej Dovlatov, che forse è da considerare suo discendente letterario diretto, la nostra rivista ha recentemente dedicato un ritratto (qui potete leggere l’articolo).
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.
Sono contento di aver letto la biografia. Mi da’ l’impulso di rileggere M&M dopo tantissimi anni. L’umorismo russo, l’ironia, il sarcasmo elegante e’ uno dei tanti denominatori della loro letteratura. Purtroppo non ho letto molto. Se posso citare tra quelli che sono forse poco conosciuti (ne ho 2 davanti): Daniil Charms “Casi” (Amazon ne ha parecchi altri) e l’ultimo comprato Arkadij Averchenko “Il topo sul vassoio” 44 paginette! Saluti
un appunto: a me risulta che il maestro e margherita è rimasto incompiuto…
In realtà il romanzo, al quale Bulgakov ha lavorato fino a un mese dalla sua morte, era quasi ultimato e tale poi è apparso perchè nel 1941 fu completato dalla moglie dello scrittore che aveva le bozze e, ovviamente doveva conoscere l’idea del marito a riguardo.