Paolo Mantegazza e la possibile arte di vivere

Qualche decennio fa, parecchi a dire il vero, bighellonando per mercatini antiquari, come facevo allora e tuttora faccio, mi sono imbattuto in alcune singolari opere, erano per essere precisi, degli “Almanacchi igienici” raccolti per annate e pubblicati a metà dell’Ottocento in volumetti tascabili.
Bastò uno sguardo per capire che si trattava di libri di divulgazione, che avevano l’obiettivo di diffondere nozioni scientifiche e prescrizioni “salutari”, cose che dovevano rivestire una qualche importanza in un’Italia come quella di quel periodo, ancora parecchio arretrata e con fortissimi squilibri socioculturali.
Si cercava con quelle pubblicazioni di incidere sulle abitudini degli italiani, migliorandone la qualità della vita, con la pretesa non troppo nascosta di favorirne l’arte del vivere.

Paolo Mantegazza

L’autore, Paolo Mantegazza, mi parve una sorta di apostolo della divulgazione, un appassionato della scienza che, seppure a modo suo, maneggiando con molta enfasi lo stato delle conoscenze di allora, fungeva un po’ da Piero Angela dei suoi tempi.
Tante delle teorie esposte in quegli almanacchi apparivano ormai inevitabilmente bizzarre, ma se ne deduceva anche che per le sue conoscenze l’autore doveva essere considerato un importante punto di riferimento culturale, una fonte autorevole di chiarificazione e di esposizione di fatti e precetti scientifici.


Per una strana coincidenza, negli stessi giorni sentii citare più volte Mantegazza in un film di Lattuada, “Venga a prendere il caffè da noi”, ambientato in una città italiana di provincia dei primi del Novecento, il cui protagonista, interpretato da Ugo Tognazzi, era un fedele seguace delle sue teorie e dei suoi precetti, quelli esposti nella sua “Fisiologia del piacere”.
Acquistai un paio di quegli almanacchi e cercai di sapere di più sul loro autore, scoprendo, proprio come pensavo, una personalità strabordante e contraddittoria, nella quale, pur appellandosi tutte a dei principi scientifici, convivevano anime che oggi definiremmo sia progressiste che reazionarie.
Fu un uomo iperattivo e poliedrico, come ancora se ne trovavano in un’epoca nella quale le specializzazioni si potevano accumulare l’una sull’altra, senza un’unica via obbligata per costruirsi una propria carriera.
Così Mantegazza potè definirsi, a buona ragione, medico, fisiologo, patologo, igienista, neurologo, antropologo, uomo politico e, come si è visto, anche scrittore divulgatore, ma fu capace anche di scrivere un romanzo che precorreva il genere fantascientifico.
Quest’uomo così eclettico nacque a Monza nell’ottobre del 1831 e, appena sedicenne prese parte con sua madre alle Cinque giornate di Milano, ovvero a quella insurrezione armata che solo per poco tempo liberò la città dal dominio austriaco.

Paolo Mantegazza

Studiò medicina e chirurgia a Pavia, dopo qualche frequentazione a Siena, e si laureò presso l’ateneo lombardo all’età di ventitre anni.
Già allora Mantegazza coltivava una grande curiosità per diversissime discipline e sentiva altrettanta attrazione per luoghi lontani del mondo, così, subito dopo la laurea, col doppio proposito di diventare milionario, non si sa bene con quali affari, e di coltivare gli amati studi di antropologia, partì per il Sudamerica.
Nel corso di quella esperienza conobbe e sposò Jacobita Tejada, dalla quale ebbe poi quattro figli, ma si dedicò soprattutto allo studio delle popolazioni locali, alle loro malattie e al loro corredo genetico, frutto, in una certa misura, dei vari incroci tra bianchi conquistatori, indios e neri arrivati in schiavitù.
L’antropologia lo affascinava, così fu naturale per lui interessarsi alla vita degli indios, un’esistenza che pareva insensibile allo scorrere del tempo, presa solo dalla convivenza-competizione con la natura e dalle lotte per la sopravvivenza.
In quegli anni lontani dalla patria, Mantegazza si prestò a fare il medico nei luoghi più sperduti del continente e, tra le altre cose che fece, aiutò molti italiani in fuga da fame e miseria, gente migrante, nel farli arrivare in Argentina.
Fu un’esperienza che lo mise dinanzi a tanta disperazione e alla quale fece più di un cenno in un suo libro, “Un giorno a Madera”.

Nel 1858 rientrò in Italia, intraprendendo la carriera universitaria e prendendo la titolarità della cattedra di Patologia generale a Pavia, l’ateneo presso il quale si era laureato.
Incapace di accettare un’idea tranquilla e passiva della sua professione e, come sempre, spinto all’azione, va ascritto a lui il merito di aver fondato in quella città il primo laboratorio di patologia sperimentale mai nato in Europa, un istituto nel quale successivamente si formarono alcuni scienziati di fama, come Camillo Golgi, ad esempio, padre di molte ricerche sulle cellule del tessuto nervoso.
Poliedrico, inoltre, come la sua natura lo portava a essere, nel 1865, a poco più di trent’anni, divenne Deputato del Regno d’Italia.
Di lui come membro del Parlamento si ricorda l’impegno contro la tassa sul macinato, che fu introdotta dalla destra storica per contribuire al risanamento delle finanze, ma sembra che, in generale, Mantegazza, pur avendone fatto parte, non fosse un estimatore della classe politica, se è vero che definì il Parlamento come:
“Il più alto laboratorio di forze disperse. Qui abbiamo la più alta perfezione di un meccanismo al rovescio, dove cioè quasi tutte le forze si trasformano in attriti”.
A causa della sua attività politica si era comunque trasferito a Firenze, che fu capitale d’Italia per sei anni, a partire proprio dal 1865, e fu in questa sede che abbandonò il campo della patologia per quello dell’antropologia, fondando la prima cattedra universitaria di Antropologia, favorendo la nascita del Museo nazionale di antropolgia ed etnologia e dando vita alla rivista “Archivio per l’antropologia e l’etnologia”.

Fotografie per gli studi di Antropologia di Mantegazza

Fondatore anche della Società italiana di antropologia ed etnologia, fu corrispondente di Charles Darwin, delle cui idee evoluzionistiche divenne strenuo difensore, pur rimanendo sempre in una posizione libera, che gli permetteva anche di esprimere alcune critiche.
Aveva intanto avviato la sua fitta attività pubblicistica, parte della quale, come si è detto, fu rivolta alla grande divulgazione.
Gli “Almanacchi igienici”, quei libretti ai quali accennavo e che trovai in un paio di mercatini antiquari, furono appunto uno dei mezzi usati da Mantegazza per ottenere il suo scopo di divulgatore: a partire dal 1864, quelle piccole pubblicazioni, con la loro grandissima diffusione, contribuirono a mettere le famiglie italiane in condizione di conoscere le norme igieniche di base, fondamento della salute di quell’Italia che stava entrando timidamente nella modernità.

Negli anni successivi Matengazza, in ossequio al suo ormai principale campo di interesse, quello cioè antropologico, compì nuovamente delle spedizioni scientifiche in zone allora poco conosciute.
Fu in Argentina, Paraguay e Bolivia, venendo a contatto con i coqueros, i coltivatori di coca, e appuntando nei suoi diari di aver visto presso di loro

“la più pura felicità”.

Era uno stato d’animo che si associava al consumo di quella sostanza, così Mantegazza iniziò a studiare gli effetti della coca sull’organismo, sia a livello digestivo che nervoso e quando fu rientrato in Italia, continuò a farsene spedire ingenti quantità dalla Bolivia.
Prodotto diretto di quello studio fu il saggio “Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale”, nel quale descrisse in termini assai positivi gli effetti della sostanza, ma del resto la sua posizione in merito non costituì un caso isolato nel campo medico scientifico, in quanto molti altri studiosi di quel tempo proponevano usi terapeutici della coca, soprattutto nel campo dei disturbi nervosi.
Il suo interesse, tuttavia, non si limitò al solo studio della coca, ma toccò tutte le droghe conosciute, tanto che, già nel 1858 ne aveva curato una prima, storica classificazione.
Anni dopo, poi, nel 1871, pubblicò un trattato a riguardo, “Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze” nel quale venivano esposte tutte le conoscenze dell’epoca sulle droghe psicoattive.

Innamorato della sua disciplina, definì l’antropologia “la storia naturale dell’uomo”, una scienza che superava l’anatomia che da sola non era in grado di svelare i segreti dell’uomo.
L’uomo che, sotto l’influsso di Darwin, lui riteneva essere specie, nel senso di “ gruppo di individui formati per elezione naturale e per concorrenza vitale, e che tende per eredità a trasmettere il proprio tipo”.
Le razze, secondo Mantegazza, erano solo il risultato di mutamenti di forma, più o meno permanenti.
Pur definendola come abbiamo visto, tendeva però a credere che la specie fosse un’invenzione del cervello umano, non esistente in natura, dove in realtà esistono solo gli individui, ma anche il concetto di razza per lui era solo un artificio, insomma, esistendo, a suo avviso, unicamente la grande famiglia umana.
A questo punto, data l’entità di concetti di questa portata, potremmo anche sbilanciarci e definire il nostro studioso una sorta di vessillifero dei valori dell’uguaglianza e del progressismo, ma in realtà Mantegazza era pur sempre un uomo dell’Ottocento, e questi pensieri preludevano ad alcune delle sue più evidenti contraddizioni.
Tanto per farne un esempio, quello che giudicava un concetto inesistente, ovvero la razza, riteneva nel contempo utile mantenerlo nella pratica, non sopportando, oltretutto, che le razze, ma anche le classi sociali, potessero interagire tra loro, mescolandosi.
Difficile tenere insieme tutte le parti del discorso scientifico filosofico di Mantegazza, senza incappare in elementi che dopo essere stati in qualche modo affermati, vengono poi smentiti nella sostanza.

Secondo la sua concezione di famiglia umana, nell’uomo si accumulano i progressi di ciascun individuo, condivisi con l’esperienza, e si diceva anche convinto che si dovesse tutti procedere insieme verso il miglioramento della specie.
Il progresso si deve quindi intendere come l’aumento della conoscenza e della capacità di scoprire le leggi della natura.
La sua appassionata e minuziosa attività di divulgatore non aveva solo il fine di diffondere un’istruzione scientifica collettiva di base, ma anche quella di propugnare concetti di tipo morale, alcuni dei quali sarebbero tuttora condivisibili, mentre altri sarebbero quasi improponibili ai nostri giorni.
Da un lato, nel 1862 fondava “l’Igea”, una rivista di medicina preventiva, che andava dunque incontro alle necessità generali dell’umanità, dall’altro, malthusianamente, nel suo “Un giorno a Madera”, cercava di convincere gli “inadatti” ad amare, sì, ma a non generare.
Dai suoi scritti emerge un modello di società di uomini e donne fisicamente e intellettualmente “potenti”, perché era fermamente convinto che la salute fisica fosse una premessa di quella morale; ne conseguiva però la convinzione che le razze umane in natura avessero un’organizzazione gerarchica e che essa non dovesse essere sovvertita.
Vicino alle teorie eugenetiche, Mantegazza concepiva un’umanità divisa in gruppi con un diverso peso gerarchico (l’uomo europeo stava al vertice di questo assetto naturale) e che quindi questi gruppi non avrebbero mai dovuto, per ragioni biologiche, mediche o sociali, interagire tra loro.
La conclusione di un simile modello di umanità, che finiva per ricollegarsi in qualche modo al pensiero darwiniano, era che una selezione naturale avrebbe comunque assegnato ai più forti la prevalenza e dunque il governo sui più deboli.

Charles Darwin

Certamente anche la convinzione della naturale inferiorità della donna, da relegare nel tradizionale ruolo di moglie e madre, strideva, e molto, con altre sue visioni, decisamente più avanzate.
In questo florilegio di interessi ed occupazioni scientifiche, Mantegazza trovò anche il modo di occuparsi di psicologia, ma lo fece a modo suo, con l’approccio che ci si poteva attendere da un uomo con la sua formazione.
Considerò dunque la psicologia alla stregua di ogni altra scienza sperimentale e studiò in particolare la reazione mimica facciale a degli stimoli nervosi.
Lo fece usando sé stesso e altri volontari, tutti sottoposti a stimoli di varia natura: tattili, uditivi, visivi, olfattivi e gustativi, e servendosi della fotografia per registrare le diverse reazioni mimiche del volto. Si servì anche di un noto attore comico, Guido Leigheb, e di un fotografo da lui istruito, Giacomo Brogi, per fissare in una serie di fotografie, le espressioni della collera, dello stupore e del riso nei diversi gradi di intensità.

Guido Leigheb, espressioni della collera, dello stupore e del riso nei diversi gradi di intensità.

Nel 1871, Mantegazza pubblicò gli “Elementi di igiene”, in piena consonanza con la sua attività di massimo divulgatore di norme di comportamento che prevenissero alcune malattie tra le più diffuse.
La sua produzione di saggi fu sterminata ed eclettica: scrisse di fisiologia, dei meccanismi del sesso, di filosofia, di etnologia, antropologia ed altro ancora, ma fu anche autore di romanzi, uno dei quali “L’anno 3000: sogno”, pubblicato nel 1897, come si è già detto, fu una sorta di prefigurazione della narrativa fantascientifica.
Sicuramente titoli come “La fisiologia del piacere”, in virtù dell’argomento capace di intrigare anche l’uomo comune, non solo quello di scienza, lo resero un autore popolarissimo, ma in lui, con tutte le pesanti contraddizioni che abbiamo sottolineato, era sincero l’amore per l’umanità e l’intento di introdurla ad una dimensione di maggior salute, fisica e morale.
La ricerca quindi di una possibile felicità per l’uomo fu per lui un impegno autentico ed appassionato, per il quale, naturalmente, possedeva ricette certe.
Date alcune premesse fondamentali, secondo Mantegazza, la felicità era una loro naturale conseguenza, e non poteva essere impossibile.
Il suo “L’arte d essere felici”, un libro uscito nel 1891, con un tale successo di pubblico da sollecitare numerose ristampe, era preceduto da una breve, lapidaria e significativa paginetta, questa, per la precisione:

ALCUNE DOMANDE DELL’AUTORE AL LETTORE.

Sei sano?
Sì.
Sei galantuomo?
Sì.
Hai il pane quotidiano?
Sì.
Sei felice?
No.
Ebbene, fatti curare e poi va’ a scuola, perché tu sei malato e ignorante.

Paolo Mantegazza si spense nel 1910 nella sua residenza estiva di San Terenzo di Lerici.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *