Babi Yar: il diritto alla Memoria

                                     

Nella profonda gola situata in prossimità di Kiev, nota come Babi Yar, fra il 29 e il 30 settembre 1941 le truppe tedesche sterminarono, 33.771 ebrei: si trattò del più grande eccidio commesso durante il secondo conflitto mondiale.
Durante e dopo la guerra il territorio fu modificato, ridisegnato o riconvertito con l’obiettivo di rimuovere i segni fisici del genocidio. Di fronte alla volontà di cancellazione del luogo, un ruolo centrale nel processo di trasmissione dei fatti storici lo ebbero le arti.
Prosa e poesia, musica, architettura e pittura hanno dato forma a una sorta di testo collettivo, analizzato nel libro “Le ceneri di Babi Yar” di Antonella Salomoni, grazie al quale la memoria ha potuto conservarsi nonostante le censure e le profanazioni di un regime che non intendeva accettare l’idea che nella guerra contro i popoli sovietici ci fosse stata anche una “guerra” contro gli ebrei.

Nell’ambito della Shoah, la distruzione degli ebrei ucraini nei due anni di occupazione nazista costituisce un capitolo importante, sia per le proporzioni del massacro, oltre un milione e mezzo di ebrei furono assassinati, ovvero circa il 60% della popolazione ebraica residente allora in Ucraina, sia per le modalità di attuazione.

A differenza di Auschwitz e dei campi di sterminio siti in Polonia, in Ucraina le vittime furono assassinate per fucilazione di massa, in operazioni sistematiche, effettuate a poca distanza dal luogo di abitazione degli ebrei, praticamente sotto gli occhi della popolazione locale e con la collaborazione attiva della polizia ucraina, cui i tedeschi delegavano spesso il lavoro più sporco.
Alla vigilia dell’occupazione tedesca, l’Ucraina contava una popolazione di oltre 2.500.000 ebrei, la comunità ebraica più importante di tutta l’URSS e la seconda in Europa dopo quella polacca. Con l’avvio dell’Operazione Barbarossa nel giugno 1941, l’avanzata tedesca fu accompagnata da azioni violente e pubbliche contro i civili e gli ebrei, prendendo di mira innanzitutto gli adulti, sospettati di essere anche oppositori politici. 
Il primo grande massacro di ebrei fu quello tra il 28 e il 29 agosto fatto a Kamenets-Podolsk dove vennero assassinati brutalmente più di 25.000 ebrei.
Ebbero invece maggiori possibilità di scampo gli ebrei delle province più a oriente dell’Ucraina che fuggirono nei territori russi. Si stima che solo un terzo della popolazione ebraica ucraina riuscì a scappare, mentre del milione e mezzo di vittime assassinate nel giro di due anni e mezzo, circa 500.000 trovarono la morte nella Galizia orientale e almeno 200.000 in Bessarabia e Transnistria dove c’erano gli invasori dell’Asse. Gli altri furono assassinati in Ucraina: qui i nazisti incoraggiarono la popolazione locale a scatenare dei pogrom antisemiti.
Il massacro di Babi Yar, che fu effettuato in meno di due giorni ed avvenne in un burrone naturale poco distante da Kiev, rappresentò il più grande assassinio di massa di ebrei perpetrato dalla Germania fino a quel momento.
Si deve purtroppo osservare che senza la partecipazione attiva alle fucilazioni della Wehrmacht e dei collaborazionisti ucraini non sarebbe stato possibile eseguire un’azione così atroce, che vide tra le vittime anche migliaia di anziani, di bambini, anche neonati, morti con le loro madri in un’orgia di sangue che si protrasse per ore e ore.

Babi Yar: Un soldato nazista spara ad una donna con il bambino in braccio mentre altre persone stanno scavando la fossa

Nei giorni precedenti l’eccidio i partigiani e i servizi sovietici dell’NKVD (l’agenzia di polizia segreta sovietica) avevano minato una serie di edifici nel centro della città che fecero poi esplodere il 24, provocando centinaia di vittime fra le truppe tedesche e lasciando oltre 50.000 civili senza tetto.
Il 28 settembre vennero affissi per la città manifesti recanti la dicitura seguente:

“Tutti gli ebrei che vivono a Kiev e nei dintorni sono convocati alle ore 8 di lunedì 29 settembre 1941, all’angolo fra le vie Melnikovsky e Dokhturov (vicino al cimitero). Dovranno portare i propri documenti, danaro, valori, vestiti pesanti, biancheria ecc. Tutti gli ebrei non ottemperanti a queste istruzioni e quelli trovati altrove saranno fucilati. Qualsiasi civile che entri negli appartamenti sgomberati per rubare sarà fucilato.

Gli ebrei di Kiev si radunarono presso il cimitero, credendo di essere caricati sui treni. La folla era tale che molti anziani, donne e bambini non capivano cosa stesse accadendo e quando udirono le mitragliatrici era troppo tardi per potersi salvare.
Vennero condotti in gruppi di dieci attraverso un corridoio di soldati, come descritto da A. Kuznetsov, testimone oculare:

Un plotone di esecuzione nazista a Babi Yar

“Non c’era modo di schivare o sfuggire ai colpi brutali e cruenti che cadevano sulle loro teste, schiene e spalle da destra e sinistra. I soldati continuavano a gridare: “Schnell, schnell!” ridendo allegramente, come se stessero guardando un numero da circo; trovando anche modi di colpire ancora più forte nei punti più vulnerabili: le costole, lo stomaco e l’inguine”.

Gli ebrei furono obbligati a spogliarsi, picchiati se resistevano, infine uccisi con armi sull’orlo del fossato. Secondo il rapporto dell’Einsatzgruppe Nr. 101, almeno 33.771 ebrei di Kiev e dintorni vennero abbattuti sistematicamente con le mitragliatrici.
Più di 60.000 persone, tra cui partigiani, rom e prigionieri di guerra sovietici vennero uccisi più tardi in questo stesso luogo.
Gli ebrei feriti o lenti furono fucilati sul posto.

Un militare della Schutzpolizei testimoniò:

Ogni prigioniero fu ammanettato su entrambe le gambe con una catena lunga due metri… le pile di cadaveri non venivano bruciate a intervalli regolari, ma non appena una o due pile erano pronte, erano coperte con legno e inzuppate con petrolio e benzina e quindi incendiate”.

Esecutore del massacro fu lo Einsatzgruppe C, supportato dal battaglione Waffen-SS e dalle unità della polizia ausiliaria ucraina.

Otto Rasch, il comandante dell’Einsatzgruppe C, responsabile del massacro di Babi Yar,
fu arrestato alla fine della guerra nel 1945 ma nel febbraio del 1948 fu dichiarato non processabile a causa della malattia di Parkinson.
Morì poco dopo

La partecipazione dei collaborazionisti a questi eventi, oggi documentata e provata, fu tema di un pubblico dibattito in Ucraina e in URSS. All’avvicinarsi dell’Armata Rossa, nell’agosto del 1943 i nazisti cercarono di occultare le prove del massacro. I reparti della Sonderaktion 1005 al comando di Paul Blobel impiegarono 327 prigionieri per esumare e bruciare i corpi: i prigionieri portarono a termine il compito in sei settimane.
Per ragioni politiche un monumento ufficiale sul posto non fu costruito fino al 1976, e comunque in esso non vi venivano menzionati gli ebrei. Sono occorsi altri 15 anni perché venisse eretto un nuovo monumento rappresentante la menorah (il candelabro a sette braccia), che porta però i segni del vandalismo antisemita ancora molto presente e attivo da quelle parti.

L’Europa dell’est fu la più colpita dalla Shoah”, ha scritto la prof.ssa Salomoni, “Alla fine di settembre del 1941, in meno di due giorni furono uccisi 33.751 ebrei a Babi Yar, sobborgo di Kiev, in Ucraina, dove l’esercito tedesco era appena arrivato”. I rastrellamenti avvennero sotto gli occhi della restante parte della cittadinanza, e l’esodo verso il luogo dell’esecuzione avvenne a piedi, lasciò una profonda influenza in osservatori come Vasilij Grossman, scrittore russo inviato al fronte, autore del saggio “L’Ucraina senza ebrei”, pubblicato nel ’43. Questo, e le centinaia di episodi analoghi, dimostrano come la Shoah fu un fenomeno per lo più pubblico, non avvenuto soltanto al chiuso dei campi di sterminio.
I rastrellamenti di ebrei avvenivano infatti nelle città, nelle case, nelle strade”.

Nessun lager come nel Reich, ma un metodo selvaggio e crudele.
La Shoah in Urss è un capitolo ancora in gran parte inedito. Solo dopo la caduta di Kruscev qualcosa venne alla luce circa la vera storia dell’eccidio di Kiev. Molti sono gli aspetti che differenziano la storia della Shoah in Urss, tenuta in secondo piano, oltre che per la chiusura degli archivi fino all´89, anche per il rifiuto ideologico comunista di vedere l’annientamento degli ebrei come un evento distinto all’interno della furia nazista.

Una fossa comune a Babi Yar

Fu di ostacolo anche l’impossibilità della comunità ebraica sovietica di organizzare uno studio efficace sulle fonti: molti fatti e documenti non sono stati indagati fino alla caduta del regime.
Oggi però i nuovi studi permettono di inquadrare meglio le modalità del genocidio. Ciò che spicca però è soprattutto la rimozione della Shoah imposta da Mosca, non disposta ad accettare l’idea che la comunanza di destino imposta dai nazisti e dai molti collaborazionisti che affiancarono l’opera, avesse prodotto una “nazione altra” all’interno dell’Urss.
Una rimozione così aggressiva da non proteggere i pochi sopravvissuti ridotti ad ombre viventi mentre tentavano o di ricevere gli aiuti internazionali, o di ritrovare lavoro, o di rioccupare le case abbandonate nella fuga, una rimozione così ossessiva da sfociare prima in un antisemitismo popolare poi di Stato.
La Salomoni ha quindi concluso:

Lo stato di Israele premia quelli che vengono chiamati “I giusti tra le Nazioni”, cioè coloro che aiutarono gli ebrei a sopravvivere. Nel Giorno della Memoria però è opportuno pensare non soltanto a chi assistette ai rastrellamenti e si appropriò dei beni lasciati dagli ebrei nelle case, ma anche ai giusti, i pochi che nascosero e aiutarono altri a salvarsi, compiendo il bene senza sperarne nulla in cambio, nella quotidianità, senza testimoni”.

Gli ebrei di Kiev, capitale dell’Ucraina, sono stati uccisi tre volte: prima dai tedeschi aiutati dalla polizia ucraina, poi dall’oblio imposto dai governi comunisti succedutisi nell’Urss e infine dal governo della Repubblica Ucraina postcomunista.
La notizia dell’esecuzione di massa fu riferita il 17 dicembre del 1941 in un comunicato stampa del Joint Foreign Committee of the board of Deputies of British Jews (Commissione mista degli affari esteri del consiglio dei delegati degli ebrei britannici). Purtroppo nessuno credette a quei rapporti, ritenuti troppo allarmanti e inverosimili. Nel dicembre del 1943, però, dopo la liberazione di Kiev da parte dell’Armata Rossa, i cadaveri vennero disseppelliti dalle fosse di Babi Yar.
Il rapporto ufficiale affermava che in quel luogo erano stati sterminati oltre 30 mila ebrei, ma il Cremlino ribaltò un pezzo della verità, affermando che i “banditi nazisti avevano ammazzato civili sovietici”, negando così un capitolo importante della Shoah perché a morire in quelle fosse a colpi di mitragliatrice furono ebrei, come indicato nell’avviso che il 28 settembre del 1941 che intimava alla loro popolazione di radunarsi in diversi punti della città.

Uno dei 2000 avvisi affissi a Kiev e dintorni il 28 Settembre 1941

Donne, uomini, vecchi e bambini sfilarono a piedi sotto gli occhi della popolazione di Kiev che assisteva allo spettacolo con l’idea diffusa di andare a spartirsi i beni lasciati dagli ex vicini di casa.
Il comitato antifascista ebraico, di cui faceva parte anche Vasily Grossman, cercò di pubblicare il libro nero sull’eccidio, puntualmente fermato dalle autorità sovietiche.
Stessa sorte toccò al romanzo “Babi Yar” scritto da Anatoly Kuznetsov, nativo di Kiev e testimone oculare di quei tragici eventi. Quindici anni dopo la fine della guerra, a Babi Yar era scomparsa quasi ogni traccia del massacro e della presenza ebraica a Kiev, cimitero compreso, restava poco o nulla.
Ci pensò l’arte, come spesso accade, a ricercare una verità che il regime sovietico voleva rimuovere a tutti i costi: nel 1961 una poesia di Evgeni Evtushenko (la potete leggere qui) ricordò al mondo ciò che era accaduto a Babi Yar (“Io sono ognuno dei vecchi fucilati qui, io sono ognuno dei bambini fucilati qui”), versi che Dmitrij Shostakovich metterà in musica nella terribile Sinfonia numero 13 l’anno dopo.
Negli anni che seguirono, a Babi Yar vennero apposte tre targhe: le prime due con scritte in russo e in ucraino, a ribadire che quel luogo apparteneva alla memoria dei sovietici e non degli ebrei, considerati come un corpo quasi estraneo nonostante fossero lì da secoli. Solo nel 1989 e dopo la caduta del regime comunista, comparve anche una targa in yiddish, lingua delle comunità ebraiche dell’Europa orientale.
Nel 1992 il governo ucraino mise una croce a ricordo degli ucraini uccisi durante la guerra, compresi però gli stessi collaborazionisti che appartenevano alla polizia locale il cui ruolo nel massacro, a fianco dei tedeschi, fu determinante.
La Repubblica indipendente ha avuto tanta fretta di dimenticare, almeno quanta ne ha avuta il regime comunista sovietico!
La vera storia di Babi Yar vide per la prima volta la luce dopo la caduta di Kruscev con un libro di Anatoly Kuznetsov. Pubblicato senza censure solo all’estero, nel ‘69, nella versione che vide invece la luce in Urss nel ‘66, erano stati eliminati i riferimenti ai molti ucraini che avevano accolto con favore i tedeschi e collaborato con solerzia alle operazioni di sterminio. Furono infatti migliaia i concittadini di Kiev che si prestarono ad attuare lo sterminio dei loro vicini ebrei.
Non a caso la situazione sfociò in un diffuso atteggiamento antisemita dopo la guerra a tutti i livelli della gerarchia sociale.

Due scrittori come Erenburg e Grossman contribuirono a compilare un “Libro Nero dello sterminio ebraico” che ebbe parecchi problemi per la pubblicazione.
La memoria della Shoah in tutta l’URSS è stata a lungo occultata perché durante il regime sovietico la specificità delle vittime, la loro identità religiosa, fu cancellata a favore di una memoria istituzionalizzata che voleva solamente commemorare indistintamente tutte le vittime del nazismo.
Come si è già ricordato, nel 1961 soltanto il poeta Evtushenko scrisse un poema intitolato “Babi Yar” che iniziava con il verso: “Non c’è nessun monumento a Babi Yar”, dando così voce ai timori per l’oblio che circondava quel luogo e che si voleva perpetrare.
L’opera, pur scritta in stile ortodosso dal punto di vista ideologico, suscitò un violento dibattito sui giornali allineati, che mise l’autore sotto la pressione del Partito e delle minacce degli antisemiti.
Raccontava il poeta che: “Quando ho sentito la parola jid per la prima volta a Mosca, ho chiesto cosa significasse e tutti pensavano che fingessi di non saperlo.
Ma mia madre e mio padre detestavano gli antisemiti e a quei bigotti non era permesso varcare la soglia della nostra casa. La mia discendenza è molto mista: russo, ucraino, bielorusso, polacco, tartaro, tedesco, lituano – ma non una sola goccia di sangue ebraico. Un ebreo non avrebbe potuto scrivere la poesia “Babi Yar” – né una persona di qualsiasi altra nazionalità.
Questa è una poesia di un russo sulla vergogna che prova per la storia dell’antisemitismo nel nostro paese e in tutto il mondo. Gli antisemiti non possono mai capire perché io attacchi così spesso l’antisemitismo. Semplicemente non riescono a capire che una persona può sentire il dolore di un’altra. Ecco perché mi hanno attaccato per “Babi Yar”, accusandomi di glorificare la tradizione ebraica trascurando le sofferenze del mio popolo russo”.

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

In effetti fino al crollo del blocco comunista, le autorità di Mosca evitarono di fare menzione delle vittime ebree del massacro e la prima commemorazione pubblica ebbe luogo solo nel settembre 1991, come accennato, e un mese dopo sul luogo della strage fu eretta una grande menorah.
Riguardo al lavoro di Shotakovich ha ricordato Evtušenko: “l’esibizione più elettrizzante fu la prima, quando Shostakovich stesso la cantò per me, seduto al piano. Ha suonato e cantato tutte le parti: il solista, il coro e l’orchestra. I suoi occhi erano pieni di lacrime. Decise da solo di impostare il testo in musica. Il modo in cui l’aveva fatto mi ha stupito. Se fossi stato in grado di scrivere musica, questa è esattamente la musica che avrei scritto per questa poesia perché aveva combinato cose apparentemente incompatibili: requiem, satira e lirismo triste.
Quando le persone hanno ascoltato la sinfonia, hanno pianto, si sono indignate e, cosa che accadeva molto raramente in Russia, hanno riso”.
I versi del poeta Evtušenko, messi in musica da Dmitrij Šhostakovič (qui il nostro articolo) nel primo tempo della sua Sinfonia N.13, erano un monito a ogni sovietico, ma anche all’intera umanità a non dimenticare.

Mai.

SHOSTAKOVICH Symph No 13 in B flat minor op 113 (BABI YAR) Dir Valery Gergiev Orq Mariinsky Theatre

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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