“Ma che poss’io se m’è l’arder fatale?” Ritratto di Gaspara Stampa

Verso la metà del Cinquecento, fra la grande e varia materia nella quale si andava a strutturare la letteratura italiana del tempo, si fece notare l’opera di una donna, poetessa, cantante e musicista, che staccò la sua voce da quella dei tanti petrarchisti della sua epoca, e lo fece al punto che la qualità della sua opera riuscì a far accettare quasi del tutto la rarità della sua condizione.

Le “Rime” di Gaspara Stampa, libro uscito nell’ottobre del 1554, lo stesso anno della morte della sua autrice, e la cui pubblicazione fu curata da sua sorella Cassandra, lasciò in eredità ai posteri trecentoundici componimenti in versi, per lo più di soggetto amoroso autobiografico, rime dall’accento caldo, vibrante e turbato.
L’eccezionalità delle doti della Stampa si possono comprendere meglio pensando che il suo nome e la sua figura ricevettero l’apprezzamento di tanti suoi contemporanei di valore e che lo stesso riguardo, seppure in mancanza di una unanimità di atteggiamento, le hanno riservato i posteri.
La mancanza di unanimità nella considerazione che si ebbe e si ha di lei, si deve naturalmente al pregiudizio di genere: una donna, raffinatamente educata alla musica ed alle lettere, che nel Cinquecento italiano visse più amori e che ne scrisse nei suoi versi, senza sposarsi mai e distaccandosi dal modello poetico  petrarchesco, era ben in grado di risultare scandalosa e di suscitare la diffidenza di società che nel corso di molto tempo erano state disabituate a confrontarsi con simili figure femminili e che di norma si erano mostrate ad esse ostili.
Non a caso, disputando di Gaspara Stampa, si è agitata più la questione del suo esssere stata o meno una cortigiana, che quella della qualità della sua opera.
Ed essendosi per di più perso l’albo nel quale la Repubblica veneziana iscriveva le professioniste del piacere, nella parte relativa agli anni in cui ella visse, l’accanita disputa su tale tema è da ritenersi oggi ancora più oziosa.
Tra l’altro, il concetto di meretrice in auge nella Venezia cinquecentesca, differiva di molto dall’idea che oggi si ha di una prostituta:

“Se intendono meretrici quali che non essendo maritate averanno commercio e pratica con uno o più uomini e anche quelle che avendo marito non abitano con i suoi mariti ma stanno separate”.

Ritratto di Gaspara Stampa

Bastano queste righe per capire quanto fosse delicata e rischiosa socialmente la condizione di Gaspara, poetessa di versi amorosi autobiografici e cantante: nella Serenissima del tempo si tolleravano e si accoglievano persone dal passato dubbio, magari dei sicari o gente macchiatasi di omicidio, oppure si concedeva protezione a geniali ricattatori come l’Aretino, ma questa tolleranza e queste libertà personali riguardavano per lo più gli uomini.
Di qui le difficoltà vissute da una donna che riuscì ad eludere gli stilemi letterari imperanti, barcamenandosi in un mondo complesso, usando l’amore come veicolo di sviluppo del suo talento poetico e dimostrandosi capace di aggirare le convenzioni rigide del suo tempo, convenzioni presenti anche in una città come Venezia, allora famosa per una certa, seppur blanda, apertura morale.
La famiglia di origine di Gaspara, del resto, non poteva definirsi di tipo tradizionale. Quella di suo padre era milanese di origini, di casato patrizio decaduto, trasferitasi da tempo a Padova, città in cui lui, Bartolomeo Stampa, esercitava il mestiere di orafo.
Cecilia, la madre, donna di una certa cultura, proveniva invece da Venezia.
La futura poetessa nacque dunque a Padova nel 1523.
La condizione agiata del padre offrì ai figli ottime possibilità materiali, e non solo.
Bartolomeo infatti, permise a Gaspara e ai suoi fratelli, Cassandra e Baldassarre, di ricevere un’educazione particolare, quasi temeraria per quei tempi, e non a caso riprovata dai moralisti.
Suo padre, appassionato di musica e di poesia, fece in modo che i figli imparassero prestissimo approfondite nozioni musicali e di metrica, oltre, naturalmente, a quelle riguardanti le altre materie proprie di una educazione aristocratica: latino, greco, retorica, grammatica e letteratura. 

I primi anni di vita di Gaspara furono dunque felici e ricchi di stimoli, ma la morte prematura di Bartolomeo, avvenuta quando lei aveva poco più di sei anni, indusse sua madre a trasferire la famiglia a Venezia.
Cecilia però fece in modo che non cambiasse la direzione e la sostanza dell’istruzione che dovevano ricevere i suoi tre figli.
Uno dei loro educatori fu il toscano Fortunio Spira, poliglotta, amico di Pietro Aretino e del poeta Bernardo Tasso.
Grazie ai suoi insegnamenti i tre ragazzi Stampa vennero messi in grado precocemente di comporre odi e altre forme poetiche in latino, mentre il cantante e compositore Perissone Cambio, un nome prestigioso ai suoi tempi, insegnò canto e liuto alle due sorelle, Cassandra e Gaspara, detta Gasparina.
Il salotto di casa Stampa divenne negli anni giovanili dei ragazzi uno dei più ricercati centri di incontro letterario. Nelle stanze della loro casa convenivano artisti, eruditi e letterati.
La poesia e la musica permeavano la vita dei fratelli e Gaspara mostrava di essere la più dotata dei tre.

Fu definita “musica eccelente” da compositori ed interpreti che l’ascoltavano cantare e suonare il liuto, gente esigente come Ortensio di Lando, mentre il suo maestro, Perissone di Cambio, asseriva che nessuno amava la musica più di lei e nessuno più profondamente la possedeva.
Tante doti tra l’altro andavano a confluire in una giovane donna fattasi molto bella.
Gerolamo Parabosco, famoso organista, poeta e scrittore cinquecentesco, in una lettera indirizzata a Gaspara, le scrisse:  

“Chi vide mai tal bellezza in altra parte? Chi tanta grazia? E chi mai sì dolci maniere? E chi mai sì soavi e dolci parole ascoltò? Chi mai sentì più alti concetti? Che dirò io di quell’angelica voce che qualora percuote l’aria de’ suoi divini accenti, fa tale e sì dolce armonia…Potete adunque, bellissima signora Gasparina, esser sicura ch’ogni uomo che vi vede, v’abbia da rimaner perpetuo servitore”.

Quando non aveva compiuto ancora i vent’anni, morì, sempre compianto, il fratello Baldassarre e Gaspara, rimasta con la madre e la sorella Cassandra, continuò a crescere nella considerazione dei personaggi eminenti della cultura veneziana del suo tempo, che arrivarono a testimoniare la loro ammirazione dedicandole anche opere letterarie.
La società che Gaspara frequentava e viveva era quella più eminente di una città tra le più importanti del mondo, sia commercialmente che culturalmente.
I commerci e la produzione di sete, oreficeria e l’arte del vetro la arricchivano economicamente; le accademie erudite, l’esule Aretino, Tiziano, Tiepolo, Tintoretto, Veronese, ed i lavori di Vasari per le messe in scena teatrali, la arricchivano culturalmente.
Il Carnevale poi, per tutta la sua durata, dava a Venezia un tono spensierato e licenzioso irrintracciabile in altre grandi città: era normale che gli artisti e gli intellettuali di ogni provenienza vi trovassero più possibilità e libertà creative che altrove.
Il 20 agosto del 1544 una suora, Suor Virginia Negri, in una sua lettera, che forse era un invito non esplicito a cercare la quiete spirituale nella vita monastica, mise in guardia Gaspara sui pericoli che una giovane correva nel frequentare la società veneziana, invitandola a non fare “delle sue grazie un idolo”.

Gaspara non seguì il consiglio della monaca e seguitò ad essere presente nel bel mondo e ad incontrare artisti e letterati.
La sua bellezza e la sua intelligenza brillavano agli occhi di molti e lei ebbe naturalmente i suoi amori, il primo dei quali fu forse un Gritti, esponente di una famiglia prestigiosa.
Nel 1548, Gasparina era una venticinquenne nubile e molto corteggiata che si era espressa più che altro con la musica, col liuto e col canto, arte in cui eccelleva.
Le sue prove poetiche fino a quel momento si erano limitate a componimenti di risposta ad ammiratori, sonetti di cortesia, insomma, in linea con lo stile poetico petrarchesco.
Decisivo per le sorti poetiche di Gaspara fu però il suo incontro con il conte Collaltino di Collalto.
Patrizio, biondissimo, di bell’aspetto e di educazione umanistica, il giovane conte vantava anche un grosso patrimonio e possedimenti nella marca trevigiana.
Come tutti i nobili serviva la repubblica veneziana nella diplomazia e, all’occorrenza, nella guerra.
Gaspara se ne innamorò perdutamente e sarà Collaltino la miccia che farà esplodere la sua vena poetica, spingendola col tempo a cercare e trovare soluzioni stilistiche realmente innovative.
Il cuore e la poesia, Gaspara ne ebbe subito coscienza, andranno di pari passo segnando una perfetta integrazione di tema e stile.
Lei era talmente certa di questo intreccio che nel suo ottavo sonetto scriveva:

“Perchè non debbo avere almeno un poco
 di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
Se l’amore, séguita, mi fece così degna
 Perché non può con non usato gioco
far la pena e la penna in me simile?”

Gaspara e il Conte Collaltino di Collalto

Tutti progressi stilistici saranno da lei spiegati con la presenza e l’ispirazione fornitagli dal suo amato, tutti i meriti della sua opera a lui verranno attribuiti:

“Voi mi guidate/l’ingegno e lo stil, signor; mi date”.

Oltre alla naturale modestia ed all’amore, questo continuo dare a Collalto il merito della sua qualità poetica, sono stati da parte di alcuni studiosi motivati dall’obbligo sociale che Gaspara subiva, di riconoscere comunque una superiorità maschile.
Testimoniato dall’accumularsi delle rime di Gaspara, il rapporto amoroso tra lei e il conte durò tre anni, attraversando varie fasi, ma connotato sostanzialmente dalla passione di lei e dal suo struggersi dinanzi a lui.
Certamente Collalto non fu altrettanto impetuoso e spesso, richiamato da impegni diplomatici o bellici, si distrasse dal loro rapporto senza provar troppa pena.
Di fronte alle assenze dell’amato Gaspara, stimolata dalla solitudine, sembrava ancor più ispirata e felice nel suo poetare, e questa incisività si esaltava in coincidenza con i “ritorni” di Collalto:

“O notte, a me più chiara e più beata
che i più beati giorni ed i più chiari,
notte degna da’ primi e da’ più rari
ingegni esser, non pur da me, lodata;
tu de le gioie mie sola sei stata
fida ministra; tu tutti gli amari
de la mia vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m’ha legata…”

Ma il giovane conte pur rendendosi conto della grande qualità di Gaspara, per sensibilità non le era certo pari.
Dopo aver tentato con dubbi risultati di scrivere anche lui dei sonetti, arrivò a chiedere alla poetessa di scrivere versi d’amore per conto di un suo amico che voleva presentarli ad una innamorata.
Gaspara, molto perplessa, rifiutò.
I frequenti distacchi da lui, l’ultimo dei quali portò Collato in Francia, il saperlo sempre preso da qualche altro interesse, e le voci di un suo matrimonio con un’altra nobildonna, ebbene tutto ciò riuscì infine a scuotere Gaspara dalla sua dipendenza amorosa e a portarla dirgli addio.
Gli ultimi quattordici sonetti del gruppo delle sue rime, Gaspara li scrisse per un successivo amore, un altro veneziano, Bartolomeo Zen, un uomo riservatissimo di cui sappiamo molto poco.
Sono versi maturi, che testimoniavano un’accelerazione della consapevolezza intima, versi ribelli, caratterizzati dall’accettazione fiera della propria autonomia e del proprio ardore che volontariamente si consumava bruciando in poesia:

Un foco eguale al primo foco io sento,
E, se in sì poco spazio questo è tale,
Che de l’altro non sia maggior, pavento.
Ma che poss’io, se m’è l’arder fatale,
Se volontariamente andar consento
D’un foco in altro, e d’un in altro male?

Negli anni che vanno dal 1551 al 1552, confortata dalla compagnia di vecchi amici quali Tiepolo, Giorgio Benzone ed il suo vecchio maestro Perissone di Cambio, Gaspara visse il momento più felice della sua relazione con Zen. Più maturo di quello per Collalto, quell’amore poteva contare anche su una base di interessi culturali comuni e su una comune sensibilità.
Seguendo la sorte sfortunata di suo fratello, dopo un malanno che la colpì a Firenze, tornata a Venezia, la poetessa fu aggredita da una febbre altissima con forti dolori addominali.
Vinta da questo male, Gaspara morì il 23 aprile del 1554 a nemmeno trentuno anni.

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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