Le voci del primo dopoguerra italiano e l’esperienza del Politecnico

Le fasi di transizione nella storia di popoli e nazioni di solito non sono mai facili.
Quando vecchi equilibri politici, economici, sociali e culturali cedono, per logorio dei meccanismi che fino ad un certo punto hanno funzionato, o a causa di qualche trauma particolare che li sconvolge di netto, il puro stato delle cose impone alle popolazioni un grande rimescolamento di carte, un enorme sforzo di adattamento che riparando vecchi guasti, si trasformi anche in una forte spinta propulsiva.
Assetto economico, assetto sociale, progresso tecnologico e sbocco culturale: nulla nella vita di un paese è destinato a rimanere fermo in certi momenti topici della sua storia.
E’ qualcosa che stiamo sperimentando anche oggi che siamo stati investiti da un flagello epocale che in pochi mesi ha già toccato in profondità la condizione nostra e quella di tutto il mondo.
Il virus da un lato ci ha costretti in difesa, per così dire, ponendoci serie questioni di sopravvivenza legate alla gestione del contagio pandemico, dall’altro ha accelerato bruscamente il percorso di trasformazione del nostro quotidiano, quello del lavoro, anzi, del suo stesso concetto, dando una decisa spinta in avanti ad un processo che, comunque, era già iniziato.
Dovremmo anche credere che anche una guerra sanguinosa su suolo europeo ci abbia presi di sorpresa, anche se su questo punto ho molte riserve: quello che è certo, tuttavia, è che a shock si è aggiunto altro shock e che le conseguenze di eventi epocali come questi si fanno già sentire nel nostro quotidiano e che continueranno a farlo per una imprecisata porzione di tempo.

L’impressione che ricaviamo vivendolo, è che per via dello scossone provocato, questo periodo porterà molti cambiamenti nella vita che ci aspetta d’ora in poi, e che, come sempre nel corso della storia, per questo ci verrà richiesto ancora una volta quello sforzo di adattamento, immaginazione e propulsione che si presenta inevitabile in circostanze così straordinarie.
Per nostra lunghissima esperienza, tuttavia, sappiamo già che dalle macerie in qualche modo se ne viene fuori e che i periodi di transizione non si caratterizzano solo per le indubbie difficoltà che propongono, ma anche per gli stimoli che esse innescano, favorendo il fiorire di risposte adeguate in ogni campo e l’avvento di stagioni che spesso si dimostrano proficue ed intriganti.
Così fu nel nostro primissimo dopoguerra, col paese semidistrutto fisicamente e moralmente, quando le risposte urgenti richieste dal disastro lasciato in eredità agli italiani da fascismo e guerra, dovevano essere straordinarie e investire ogni settore della nostra società macerata, per poterla riportare a nuova vita.

E, necessariamente, queste risposte non furono solo quelle, fondamentali, di tipo politico, economico o sociale, ma con esse, altrettanto necessarie, dovevano inevitabilmente esserci anche le contromisure culturali, che sarebbero state il mastice della rinascita.
Quello della cultura e dell’informazione, infatti, era stato uno settori più angariati dal regime fascista, un ambito minutamente controllato in tutte le sue specificazioni, palesemente coartato e censurato.

Con la fine della guerra quel controllo soffocante si esaurì, tanto che già nei mesi in cui andava avanti la liberazione della nostra penisola ad opera delle forze alleate, iniziarono a proliferare numerose testate e riemersero molti degli organi di informazione soppressi dal fascismo nel biennio 1943-1944.
Iniziò anzi un’epurazione dei giornalisti e dei direttori di giornale che più avevano appoggiato il regime e in molti casi furono gli stessi editori, adeguandosi alla situazione, a cambiare i vertici delle testate per evitarne la chiusura.

La fortissima spinta a schierarsi, tipica nei casi in cui la possibilità di esprimere le idee politiche è stata a lungo soffocata, determinò il successo, soprattutto nelle grandi città industriali del nord, della stampa di partito, a danno dei giornali di pura informazione.

Fu una situazione che non sfuggì agli americani che si diedero da fare per appoggiare il risorgere di una stampa apparentemente neutrale, destinata a lettori non schierati.
In un primo tempo a riempire questo settore poco affollato furono testate come “Il Corriere di informazione” o il torinese “La nuova Stampa”, mentre a Roma “Il Tempo” guadagnava spazio per la prolungata chiusura del “Messaggero”, suo concorrente diretto, che sarebbe tornato in edicola solo nella seconda metà del 1946.
Nell’anno successivo riappariranno coi nomi originari testate famose, ben piantate nelle rispettive realtà territoriali: il “Roma” ed “Il Mattino”, entrambi napoletani, e l’emiliano “Il Resto del Carlino”.
Molti furono gli intellettuali che si impegnarono nella rinascita dell’informazione democratica, ma si tennero prevalentemente su un crinale più strettamente giornalistico che letterario, più politico che culturale, anche se gli interventi di questo taglio manterranno il loro tradizionale spazio su alcune colonne delle terze pagine.
Del resto i giornali più ricchi uscivano in un formato di sole otto pagine e andavano sfruttate come meglio si riteneva.
Una delle novità di quell’informazione appena liberata fu il riapparire, ad esempio, della cronaca nera, soppressa a suo tempo dal fascismo e trattata in questo primissimo dopoguerra con un linguaggio alto e con una prudenza generalizzata e sopravvivente, nei confronti dei centri del potere economico e politico.
Fu nei settimanali, però, più che nei quotidiani, che si evidenziò un maggiore dinamismo, una sbrigliatezza che già si era intravista con l’”Omnibus”, diretto da Leo Longanesi e nato nel 1937.

Leo Longanesi

Anticonformista e spesso caustico nella critica di costume, fu questo rotocalco a usare per primo l’immagine e la fotografia come narrazione documentaria più che come semplice supporto.
Fu una breve avventura, ma l’elenco di chi vi collaborò getta un’indicazione precisa sull’influenza che quel settimanale ebbe anche nel dopoguerra; questi sono solo alcuni dei nomi coinvolti: Corrado Alvaro, Tommaso Landolfi, Bonaventura Tecchi, Riccardo Bacchelli e, sul fronte più squisitamente giornalistico, gli allora giovani Vittorio Gorresio e Ugo Stille.
Nella narrazione della realtà del periodo complesso e stimolante di questi primi anni, l’atteggiamento della letteratura e del giornalismo fu, in estrema sintesi, duplice: da un lato si proponeva ai lettori una rivisitazione della storia appena vissuta, filtrata dal rinascente impegno politico degli scrittori, dall’altro lato, molti intellettuali e giornalisti non si riconoscevano in un atteggiamento culturale di questo tipo, rimanendo distanti da un impegno militante.
Certamente l’approccio politico sociale che segnò quel periodo di transizione tra il passato ed il futuro del paese, produsse, anche fuori del mondo dell’informazione, risultati straordinari, evidenti in opere narrative, come ad esempio, “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, o coi romanzi di Fenoglio e di altri scrittori di vaglia.

Carlo Levi

La letteratura, in sostanza, si affiancava nella sua missione al movimento neorealista, che impose la cinematografia italiana in tutto il mondo, facendone ancora oggi un fatto culturale conosciuto e apprezzato ovunque.
Si è già detto che in quello scorcio di tempo furono i settimanali ad essere più propulsivi tra i prodotti dell’informazione, più innovativi e meno prudenti nel rapporto con le classi dirigenti che andavano a sostituire quelle del regime caduto.
Tra le testate settimanali di quel primo dopoguerra, due in particolare divennero emblematiche di un avvertibile dualismo culturale, furono due settimanali che nacquero nello stesso anno: “L’Europeo”, fondato da Arrigo Benedetti nel 1945 e “Il Politecnico”, creatura di Elio Vittorini.

Arrigo Benedetti e Elio Vittorini

Più tardi sarà “Il Mondo”, la rivista di Mario Pannunzio, anch’essa affollata di talenti, a segnare uno spazio di indipendenza dalla dicotomia cui si accennava.
Nel primo dei due settimanali citati, “L’Europeo”, prevaleva una cronaca documentaria e distaccata della realtà, il gusto di scoprire una classe politica nuova e sconosciuta.
Era viva la curiosità per le persone, per l’aneddoto e per la boutade, anche se tutto veniva epresso in modo meno acre e pungente rispetto allo stile pungente di Longanesi.
Ia cifra di Benedetti atteneva più al gusto borghese per l’attualità, prediligendo, di conseguenza, il giornalismo puro rispetto all’intervento letterario, che rimaneva infatti confinato negli spazi dell’elzeviro in terza pagina.
“Il Politecnico”, che nel sottotitolo si definiva “settimanale di cultura contemporanea”, seguiva invece una linea editoriale diversa.

Fondato da Elio Vittorini nel settembre del 1945, ebbe una cadenza settimanale che però non si mantenne tale per tutto l’arco della sua vita editoriale, scivolando, per ragioni economiche, in quella mensile, a partire dal maggio dell’anno successivo.
Vi scrissero molti intellettuali di valore, uniti da una comune matrice militante, Giulio Preti e Franco Fortini ne furono collaboratori fissi, ma tanti altri diedero contributi, come ad esempio il poeta Alfonso Gatto, Carlo Bo o Nelo Risi, anche se esprimevano opinioni difformi dalle posizioni politiche della rivista.
Il fondatore, Vittorini, l’autore di “Conversazioni in Sicilia” e di altri romanzi importanti, aveva le idee chiare sul da farsi, sin dall’impostazione grafica, moderna e accattivante che il settimanale avrebbe dovuto avere e che fu affidata poi al designer Abe Steiner, che oltretutto aveva un passato da partigiano alle spalle.

Franco Fortini e Abe Steiner

Come in “Omnibus”, anche nel “Politecnico” l’immagine fotografica assumeva un proprio e forte rilievo: le foto pubblicate riguardavano quasi sempre ambienti di lavoro, come campi, officine, miniere, perché dovevano riuscire a rappresentare il disagio del mondo del lavoro, soprattutto di quello del sud d’Italia.
Ogni numero era immaginato anche per farsi “giornale murale”, essere quindi incollato sui muri di Milano per avere massima diffusione.
Accanto ad un fondo, spesso scritto da Vittorini stesso, vi figuravano articoli di politica, storia, economia, scienza, critica d’arte, filosofia e molte inchieste, alcune delle quali divennero famose, come quelle sulla Fiat e sulla Montecatini.
Come si è detto, la rivista ebbe da subito una direzione precisa: la realtà era stata traumaticamente mutata dalla guerra e dalle sue catastrofiche conseguenze, così questa nuova situazione andava assolutamente raccontata, ma tenendosi distanti dall’idealismo crociano.

Lo stabilimento Fiat Mirafiori nel dopoguerra

Ponendosi come rivista militante “Il Politecnico” riteneva che il compito dello scrittore, o più in generale, degli intellettuali, fosse quello di raccontare per educare, contribuendo così ad un possibile riscatto dalla povertà materiale e spirituale che affliggeva principalmente quelle che venivano dette “le classi subalterne”.
Una tale impostazione non comportò mai, tuttavia, un autoconfinamento del settimanale in una sorta di torre d’avorio di purezza, al contrario la rivista si propose costantemente di misurarsi anche sui terreni non abituali della divulgazione scientifica, delle scienze sociali, dell’economia e della politica internazionale.
Questo genere di materiale di divulgativo, poi, finiva per affiancare la prima traduzione di “Per chi suona la campana” di Hemingway, pubblicata a puntate, oppure quella delle opere di Brecht, Majakovskij e Bloch, o le poesie di Fortini, Saba e Risi.

Ernest Hemingway

La commistione di notizie di tipo diverso, affiancate a note teatrali, recensioni o manifesti poetici, intendeva appunto smitizzare il lavoro dell’intellettuale o dello scrittore, portandolo nel mondo reale e traendolo finalmente fuori dall’autoisolamento, a volte snobistico, al quale lo aveva ridotto il fascismo.
Non era dunque infrequente nel “Politecnico” trovare notizie su qualche recente invenzione scientifica messe accanto a recensioni teatrali, a poesie o a traduzioni di opere narrative.
Si voleva, come appare evidente, instaurare un rapporto tra informazione e letteratura e questa idea fu appunto ciò che fece della rivista il tentativo più coraggioso di cercare un fronte comune di azione tra elementi concomitanti della cultura e ben immersi nella società.
Con il “Politecnico”, così, superando di slancio il vecchio ghetto dell’isolato articolo in terza pagina, si andò ad instaurare e consolidare un dialogo più stretto ed organico tra intellettuali e testate giornalistiche, con l’obiettivo, in consonanza con il rinascente spirito democratico, di produrre una politica culturale che minasse alla base il privilegio e l’autoreferenzialità della cosiddetta cultura “alta”.
L’esperienza, così innovativa, del “Politecnico”, non ebbe una vita lunga.
Le pubblicazioni della rivista cessarono nel dicembre del 1947, ma l’ombra della sua influenza sul mondo dell’informazione e della cultura che si sviluppò successivamente, non si è ancora dileguata del tutto.

Elio Vittorini

Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.

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