E’ stata sin qui, questa vita mia, un percorso per molta parte insensato, in cui credo di aver riservato a me stesso il peggiore malgarbo di cui fossi capace, dando forse agli altri il meglio di quel che mi era stato fornito dal mio repertorio umano.
Ho attraversato, come tutti, infinite traversie, mille e mille strade, quasi sempre divergenti da quelle più facili, ho irrorato di grandi affetti e grandi rabbie un mondo attraversato da decine e decine di facce amiche o ostili, da volti pubblici che di volta in volta si facevano simboli di idee generali, universali, che amavo o odiavo alla luce del mio filtro morale, ancor più che politico.
Non sono mai stato quieto ed il fatto di non riuscire quasi mai a sedare i pensieri ha, tra l’altro fatto di me un insonne di talento, uno che fin da bambino ha guardato storto alla notte e all’obbligo di smettere di essere e di pensare, scomparendo nel sonno.
Ho vissuto esageratamente, insomma, il mio livello emotivo e mentale, sprecando puntigliosamente una fornitura di tranquillità già scarsa per mancate consegne della natura.
Per decenni ho vissuto così, sballottato tra grandi e piccoli sentimenti, cose fatte bene ed errori inspiegabili se non alla luce di questo temperamento “estremista”, pronto in certi casi a deragliare, ma disposto a concedersi largamente solo alcune cose, tutte legate ad un pensiero che mi pareva “alto” e a rinunciare ad altre ideologicamente, quasi fossi un monaco laicissimo.
Spesso si sbaglia, infatti, se si è fatti così: la scorza dura, intransigente, a volte si fa improvvisamente friabile e allora il ghiaccio ti si spacca di colpo sotto i piedi.
Comunque non rinnego alcunché di quel mio atteggiamento dinanzi alla vita.
Ciò che per via della tendenza personale a servirmene senza ritegno, ma anche per un mio fermo giudizio intellettuale, non ho mai rinunciato a sfruttare, è stato il godimento della bellezza, in qualsiasi forma mi si presentasse: è stata la mia lunga e amatissima terapia di sostegno, eccellente nel farmi star bene, ma anche nell’arginare le conseguenze di periodi nefasti o quelle degli spettacolari errori che riuscivo a produrre.
Il bello, quindi, come medicina assoluta, ma anche come sordina, seppur incerta, ai rimpianti che volta per volta riuscivo ad accumulare.
Il carburante per alimentare questa naturalissima tendenza era, e non poteva essere che la passione, unico sbocco di un carattere sbrigliato, frettoloso, sempre all’inseguimento di eventi già accaduti nella speranza di poterli classificare e sistemare in un discorso logico, immancabilmente e disgraziatamente rintracciato a posteriori.
Non mi è mai costato nulla, dunque, gettarmi in braccio alle passioni, al contrario: alcune di esse hanno segnato la mia vita esprimendosi liberamente e consolidandosi fino a tramutarsi in lavoro, com’è stato per quelle per i libri ed il fare musica; altre, sempre legate al bello, hanno costantemente arricchito la mia esistenza, rendendola comunque tollerabile e, in alcuni, preziosi momenti, addirittura estatica.
In qualsiasi modo possibile ho tentato di condividere con gli altri questo piacere vivo, scegliendo appunto lavori in grado, se fatti decentemente, di diffondere contagio, e credo che in questo mio modo di essere e di coprire un ruolo sociale di questo genere possa rintracciarsi il meglio di ciò che ho espresso nella vita.
In quella personale, troppo condizionata da un errore giovanile, ho subito il contrappasso della sorte, che mi ha dunque riservato colpi di scena a scadenza fissa: alcuni periodi di quiete e molti difficilissimi giri sull’otto volante dei guai.
In tempi recenti una sorta di miracolo mi ha riportato indietro, a stretto ridosso di quel primo fatale errore, dandomi la possibilità, a quarant’anni di distanza dall’epoca in cui lo commisi, di ristabilire con la sua coprotagonista il percorso che avrei dovuto imboccare allora, seppur col rammarico aspro per il tempo perduto.
Sì, perchè a furia di praticare romanzi, insomma, sono caduto felicemente nel più imprevedibile di essi, l’unico che avesse le qualità giuste per essere vissuto, anche in età tarda.
Uno stato di simile grazia di sentimenti e di rapporto non lo avevo mai conosciuto e questo legame si è rivelato così straordinario da essere inesprimibile: non avevamo sbagliato noi due ai tempi del nostro amore giovanile, così forte e fragile.
Subito dopo, però, irrompendo in una parte di vita che avrebbe potuto finalmente consegnarmi ad un periodo di serenità ed accettazione di ciò che mi era stato così generosamente riconsegnato, nella mia quotidianità ha fatto irruzione un flusso anomalo, quasi antistatistico di guai fisici e colpi morali: lunghissimi ricoveri per malattie contratte in ospedale, interventi chirurgici minori, due fratture, un’operazione alla mano, l’asportazione di un polipo, la terribile perdita di una madre che non ho nemmeno potuto salutare per l’ultima volta, quella di amici indimenticabili, come il mio amatissimo Antonio Pennacchi ed altri ancora.
Infine la diagnosi di un male molto aggressivo, inoperabile.
Tutto questo in un solo anno.
Qualcuno, direbbe l’illuminista frustrato che sento di essere in questo frangente, mi ha lanciato contro l’intero campionario dei riti voodoo…
Mi ero chiesto spesso in passato, a volte ti vengono in mente certi pensieri, quali potevano essere le reazioni ed i contraccolpi psicologici immediati che, a causa di sentenze simili, subisce una persona nel momento in cui ti vengono annunciate.
Ora lo so.
In un primo momento mi è sembrato che le parole di quel referto fossero scisse dalla realtà che le infelici righe illustravano così asciuttamente, che non mi riguardassero.
Ma la forza della realtà è quel che è e finisce per imporsi.
Allora rileggi ancora una volta quel verbale, parola per parola, più volte, cercando di comprenderlo in qualche modo, di assimilarne il duro significato, mentre qualcosa, forse il mondo intero, ti vortica disordinatamente in testa: davvero le cose stanno così?
Ogni sforzo di rimuovere ciò che vedi scritto, di tirar furiosamente la testa indietro, come un cavallo recalcitrante, viene fatalmente bloccato dalla logica di cui disponi, anche se affluisce in scarsa quantità.
Il nuovo percorso inizia proprio da quel momento: ti scuoti, tenti subito di saperne di più, di cercare ovunque una via di uscita, poi, passando le ore e poi una settimana, finisci inevitabilmente e velocemente nell’imbuto delle primissime necessità, quelle che diventeranno ben presto il tuo ordine del giorno, di ogni giorno, e che te ne porrà delle altre e altre ancora che in un amen ti priveranno di molte delle libertà fisiche e psicologiche di cui godevi, sottomettendole alla realtà ma anche alla voglia di reagire, al dovere vitale di combattere, pur conoscendo meglio dapprima, e perfettamente poi, la pericolosità del nuovo, maledetto nemico.
Di nuovo numeri di attesa ai margini di tanti ambulatori, infiniti prelievi, accertamenti di ogni genere ed un programma di terapie che di volta in volta daranno speranza e delusione in numero equo, mentre il corpo si segna di tante inedite cicatrici e la psiche, già sfinita, deve ad ogni costo andare in palestra per reggere il nuovo, pesante carico.
Non è cosa facilissima perché il cervello non smette di funzionare e la sera a luci spente, nell’attesa vana di un sonno che non arriva, ti presenta in brutti pensieri il conto della giornata, saldo che risulta sempre parecchio salato per gli insonni.
La scomparsa della dimensione del futuro è una delle più spontanee conseguenze del nuovo status di malato grave, non si pensa più in quei termini: “Che dici, più avanti facciamo un giretto in uno dei nostri posti meravigliosi? Magari non troppo lontano? Ci vediamo bene Parma, l’Antelami e tutto il resto, che è tantissimo?”
“Sì certo, se sarà possibile…”, rispondi, e intanto pensi che il tuo futuro si è già incastrato nel presente, col portone ben chiuso a chiave.
Ma lei c’è, un dono unico, ed è straordinaria, e per quanto peni immensamente, trova la forza di anticipare ogni desiderio, ogni necessità, compresa quella di farti quelle proposte che pure hanno una loro commovente ragion d’essere.
Tu però ti identifichi ormai col presente e col suo correr corto e spesso, seppur vivendo, senti di essere già arruolato nelle truppe del passato.
E’ possibile però sfruttarlo quel presente, goderselo soprattutto nei giorni buoni, in assenza di affanno o dolori, scoprendone le ricchezze, che, per quanto modeste siano, se divise con la persona amata o con persone amiche, ti rendono felice.
Ne vivo molti di quei momenti: se il respiro mi assiste vivificando tutto il resto dell’attrezzatura fisica, e mi permettono di assaporare allora un piacere prima sconosciuto, una serenità che schiarisce l’animo.
Si cammina piano, comunque, anche la chitarra la tocco poco, o nulla, pensando immancabilmente agli oltre trent’anni da musicista, agli ottocento concerti fatti, più o meno, ai giri turistici conseguenti, alle situazioni di cameratismo con gli altri del gruppo, a scherzi, risate e situazioni paradossali vissute. Cose non più ripetibili, purtroppo, ti dici con dolore.
La sorpresa maggiore te la riserva la testa, che continua a funzionare senza tregua, nel bene e nel male, permettendole, quasi fosse alternativa al corpo, di seguitare a pensare, a produrre scrivendo, a buttar giù, con puntualità finora mai derogata, perfino il consueto materiale umoristico o quello letterario per la rivista su cui scrivo, fondata con altri cari sodali quattro anni fa.
Nel frattempo, sei costretto a farlo, pensi a sistemare le tue cose per un futuro dal quale sarai escluso, proprio ciò che non vorresti ma sai che devi fare: è quello che per scaramanzia hai evitato di considerare per tutta la vita, la tua vita di preteso immortale.
E poi, cosa inspiegabile per un temperamento sanguigno come il mio, vieni anche imbibito da uno strano senso di commozione che abbraccia tutti, anche persone con cui hai avuto diverbi o screzi e che di colpo senti di dover perdonare, non sai bene perché.
E’ una fortuna che mi restino fedeli, anche se progressivamente più fievoli, le mie incazzature frequenti, le intolleranze pittoresche, gli strilli al semaforo contro i cadaveri che si piantano lì a verde scattato già da ere geologiche e tutto il resto del bagaglio di un carattere tutto bianchi e neri, senza troppi grigi sulfurei…
E’ un gran bene che queste botte di testa, queste fiamme che mi partono veloci e stizzite, si stiano mantenendo, almeno loro, in ottima salute, altrimenti dovrei concludere che la malattia migliori l’uomo, e sarebbe una vera bestemmia, una falsità assoluta: lei è solo un’assassina vigliacca e non merita comprensione.
Non dategliene mai e non offritele mai per pasto dei luoghi comuni.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.