Blu

Ti ricordi Pier?

Il nostro sodalizio nacque in occasione del comune impegno politico; è stata forte l’idealità che ci ha unito, il senso di condivisione entusiastica di un sogno di riscatto per questa città è stato l’input che ha fatto nascere una amicizia più profonda.
Ci conoscevamo da anni, più per esserci letti in quel mare magno che è la rete dei social, e poi per esserci visti in libreria, ma l’occasione della campagna elettorale del 2016 ha permesso che accadesse qualcosa di nuovo tra noi. Ricordo perfettamente una scintilla di simpatia, la sintonia immediata di un sentire e quello spirito combattivo, che non si direbbe a vederci così, un po’ singolari, stranamente assortiti: la mitezza e l’irruenza verbale, che strano connubio di ingenuità e coerenza, sino al donchisciottismo. Che importa poi se, a inalberarsi e caricare contro i mulini a vento, si prendono palate; la testardaggine ne faceva un’impresa cavalleresca, una caricatura d’altri tempi: era ciò che definivo, parafrasando il poeta, “lo spirto guerrier ch’entro ci rugge…”.

Ebbene, caro Pier, non dimenticherò mai i nostri decaffeinati al bar, le chiacchiere fitte fitte, l’idea di dar vita a una forma di comunicazione alternativa, le nostre sortite in pizzeria con gli altri amici, finite in interminabili discussioni, infarcite da battute di spirito, lazzi e caricature che, come dicevi tu, dovevano irridere ai nostri tempi e alla nostra provincialotta società, un po’ chiusa e cristallizzata in caste di intoccabili, che se la tirano e se la credono un po’ troppo, mentre ci si dovrebbe prendere tutti meno sul serio; ma soprattutto, ci dicevamo in perfetta sintonia, è importante aprirsi all’altro, la complessità è ricchezza, e le banalizzazioni di certe semplificazioni non hanno mai arricchito, tanto meno la tifoseria da stadio, il mito del pallone al posto della testa, le verità taciute, che a dirle tutte ci vuole coraggio, e i silenzi diventano complici.

Eh sì, dilettissimo Piermario, sapevamo di essere ignoranti, in senso socratico, dicevi, e di non avere che il tempo di una meteora a disposizione, di dover praticare il carpe diem, in senso positivo, cogliendo l’attimo di una opportunità. Se un individuo si trova al posto giusto nel momento giusto, deve dare il proprio contributo minimo, la propria goccia di purezza, dentro l’oceano di “silenzio” che pure ci aveva costretti a una rassegnazione rabbiosa, in tante precedenti vicende di cui Latina era stata resa protagonista, senza mai diventarlo realmente, perché asservita a logiche stranianti di potere, becere, volgari e corrotte.

“Una produzione mediaset”,

avevi detto, metafora perfetta, un set televisivo, dove ciascuno sgomita per un posto da comparsa, scomparendo.

Caro amico, non ti sei mai sottratto al confronto, dicevi di te che stavi sempre a battagliare, tirando fendenti a destra e a manca, e aggiungo io, senza mai dimenticare lealtà e rispetto per le altre idee, ma con la convinzione che tacere non si conviene a un cavaliere senza macchia e senza paura.
Pier, avevi una tua idea romantica della vita, in tutte le sfaccettature, che spesso ho definito, citando il titolo della biografia di Marquez, “Vivere per raccontarla”.
Perché tu sapevi raccontare e affabulare, sapevi fare della vita un romanzo. Nell’infinità di libri che avevi letto, avevi trovato la vita, ti eri nutrito di biografie, romanzi, autori e personaggi che popolavano il tuo importante bagaglio culturale, superiore di gran lunga al nostro, mio e di Carlo, compagni di avventura in questa idea di dare vita a un blog rivista, Latina Città Aperta, perché la cultura, sostenevi, è la via di uscita.

Un Paese dove non si legge, ma dove curiosamente tutti vogliono scrivere, è condannato a morire.

La rivoluzione culturale, il nostro piccolo universo di rivista generosa, un po’ utopica, tanto vivace e davvero fuori dal coro, rappresentava anime ideali, dove la curiosità è la molla della conoscenza. Noi eravamo curiosi, Pier, l’uno dell’altra, gli uni degli altri, e nel confronto tra scritture, sensibilità, empatia, che ci hanno sempre coinvolto, ci dicevamo spesso, e mi dicevi:

“mi hai commosso, stracarissima; continua a scrivere, dedicati a ciò che ti fa stare bene, immergiti nella bellezza come cura”.

E poi… l’epilogo lo conosciamo, ma sino agli ultimi giorni mi hai chiesto di scrivere, e aspettavi sempre un mio scritto, mi hai chiesto di essere me, di non mollare… il sogno.

Considerati baciato, Pier, ovunque tu sia, amico per sempre; ti riconoscerò in ogni dove, anche tra mille altri,

sarai quello rigorosamente vestito di blu.



Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale

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