“Lacci” di Domenico Starnone, romanzo pubblicato per Einaudi la prima volta nel 2014, tratta la vicenda apparentemente banale di un matrimonio fallito, quello di Aldo e Vanda; nella sostanza, invece, il racconto rivela molto e lo fa vivisezionando in modo magistrale la storia d’amore e disamore tra un uomo e una donna.
Dal tradimento di lui, con una giovane studentessa universitaria, si dirama il dramma dell’abbandono, narrato attraverso le lettere, indirizzate da Vanda a Aldo, nelle quali si percepisce netta la voce carica di dolore di una donna che prova a richiamare il marito alla ragione, per farlo tornare indietro. Una lettera dopo l’altra Vanda, senza alcuna reticenza, espone la propria sofferenza, la nudità estrema del suo dolore, nonostante si senta proprio per questo privata della propria dignità di donna.
“Le lettere custodivano la traccia di un dolore così forte che, se liberato, avrebbe potuto attraversare la stanza, dilagare per il soggiorno, irrompere oltre le porte chiuse e tornare a impadronirsi di Vanda scrollandola, tirandola fuori dal sonno, spingendola a gridare o cantare a squarciagola.”
Aldo, dal canto suo, cerca con ogni espediente di evitare il confronto e, poiché non riesce ad ammettere che ama la studentessa, trova appigli, analizza il vincolo del matrimonio smontandone il valore e lo classifica una istituzione obsoleta, mentre il legame con Lidia, la studentessa, ha un che di libero e anarchico, senza lacci di sorta.
Entrambi i coniugi, però, coltiveranno interiormente sensi di colpa reciproci e verso i propri due figli, così che, nonostante il fiume in piena di frustrazione e rabbia, dolore e solitudine, bisogno di rivalsa e desiderio di fuggire dalla realtà, non riusciranno mai a comunicare tra loro.
Quando Aldo e Vanda si ricongiungeranno, si tratterà di un legame che non sarà determinato dai figli, tanto meno da un amore ritrovato, piuttosto deriverà da una sorta di accettazione ineluttabile, quasi a volersi (e volerci) dire che si resta comunque insieme, che si tratti d’amore o di tormento, qualsiasi cosa sia, si resta insieme, legati da un vincolo talmente stretto che non si può slacciare.
“Sia io che lei conosciamo l’arte della reticenza. Dalla crisi di tanti anni fa abbiamo imparato entrambi che per vivere insieme dobbiamo dirci molto meno di quanto ci taciamo.”
Alla fine si resta perché la responsabilità di infliggere un grande dolore è insopportabile, o perché, malgrado tutto, ogni rapporto, se costretto da lacci, diviene una prigione, che stringe e imprime il suo segno, tanto profondo che diventa una parte di noi ed è difficile sottrarsi.
Del romanzo di Starnone è stata fatta una riduzione teatrale, con Silvio Orlando nel ruolo di Aldo e, più recentemente, un film uscito nel 2020, diretto da Daniele Lucchetti, con la sceneggiatura dello stesso Domenico Starnone.
A conclusione del libro, in un capitolo finale, i due figli della coppia, sveleranno un altro punto di vista, uno sguardo diverso che offrirà un’altra chiave di lettura a questa storia; tra reticenze e verità nascoste, emergerà quel vissuto tenuto sotto la superficie, quei segreti che ciascuno nasconde. La rivelazione è, ancora una volta, che tutto quanto è vissuto intensamente e ci travolge, può essere completamente diverso allo sguardo esterno di chi invece quella stessa vicenda la vive da un’ altra posizione, schiacciato in un ruolo completamente differente, dal quale subisce quegli stessi eventi. Scopriamo allora che le stesse emozioni, rilette a distanza di molti anni, possono assumere un senso e un valore completamente nuovo, così come accade proprio con le parole:
“Cosa accade alle belle frasi che ci entrano nella testa, come ci muovono, come diventano prive di senso, o irriconoscibili o imbarazzanti o ridicole.”
Probabilmente è il tempo che scioglie per noi quei lacci e allenta i nodi che ci hanno stretto, nel bene e nel male, presto o tardi che sia.
Fino a poco tempo fa mi sono nascosta dietro l’eteronimo di Nota Stonata, una introversa creatura nata in una piccola isola non segnata sulle carte geografiche che per una certa parte mi somiglia.
Sin da bambina si era dedicata alla collezione di messaggi in bottiglia che rinveniva sulla spiaggia dopo le mareggiate, molti dei quali contenevano proprio lettere d’amore disperate, confessioni appassionate o evocazioni visionarie.
Oggi torno a riprendere la parte di me che mancava, non per negazione o per bisogno di celarla, un po’ era per gioco un po’ perché a volte viene più facile non essere completamente sé o scegliere di sé quella parte che si vuole, alla bisogna.
Ci sono amici che hanno compreso questa scelta, chiamandola col nome proprio, una scelta identitaria, e io in fin dei conti ho deciso: mi tengo la scomodità di me e la nota stonata che sono, comunque, non si scappa, tentando di intonarmi almeno attraverso le parole che a volte mi vengono congeniali, e altre invece stanno pure strette, si indossano a fatica.
Nasco poeta, o forse no, non l’ho mai capito davvero, proseguo inventrice di mondi, ora invento sogni, come ebbe a dire qualcuno di più grande, ma a volte dentro ci sono verità; innegabilmente potranno corrispondervi o non corrispondervi affatto, ma si scrive per scrivere… e io scrivo, bene, male…
… forse.
Francesca Suale