La dinastia Montefeltro nacque da un ramo della famiglia dei conti di Carpegna. Nel 1140 il territorio dei Signori di Carpegna venne suddiviso tra i pronipoti di Uldarico: Nolfo, Guido e Antonio. Da questo momento Antonio assunse il cognome “di Montecopiolo” che mantenne fino al 1150, quando a Roma per aiutare il Barbarossa a sedare una rivolta scoppiata per la sua incoronazione, ottenne dall’imperatore, per l’aiuto, la signoria dell’odierna San Leo che all’epoca si chiamava Mons Feretrio (Montefeltro). Il conte Antonio spostò quindi la sua sede a San Leo e dal quel momento divenne di fatto Antonio “da Montefeltro”.
La storia, spesso, si rivela più affascinante e avvincente dei romanzi e gli avvenimenti reali possono riservare autentici colpi di scena.
La storia della Flagellazione di Cristo, capolavoro pittorico realizzato da Piero della Francesca tra il 1455 e il 1460 e conservato nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino nasconderebbe significati simbolici e riferimenti storici.
Un’opera mirabile per bellezza e armonia, unica nel suo genere, che si trasforma in una sorta di porta spazio-temporale verso gli avvenimenti drammatici occorsi nella città di Urbino, intorno alle metà del XV secolo. Attraverso il capolavoro della Flagellazione di Piero della Francesca emergerebbe una vicenda di potere e sangue.
Come scrive Brend Roeck, esperto di storia dell’arte del Rinascimento:
Il vero problema di quest’opera risiede nel rapporto iconografico tra la flagellazione di Cristo raffigurata sullo sfondo, nella parte sinistra del dipinto, e i tre uomini (abbigliati in vesti contemporanee) in primo piano, sulla destra. Non esistono esempi analoghi a questa composizione. Lo stesso Roeck, nel suo libro su Piero della Francesca, scrive che da quella tavola di legno, tra le poche ad essere firmate dall’artista, emerge un racconto appassionante di un evento storico fondamentale nello scenario politico rinascimentale: la presa del potere a Urbino da parte di Federico da Montefeltro, celebre condottiero e statista, raffinato mecenate ma anche astuto regista di eventi politici.
L’identità delle tre figure in primo piano sarebbe la chiave di interpretazione del dipinto: ad esse viene assegnato un ruolo, a seconda del contesto storico in cui il dipinto viene collocato. Di conseguenza, l’uomo con la barba e il cappello nero sulla sinistra può essere un ambasciatore, un cardinale o un uomo di stato.
L’elegante personaggio sulla destra, vestito di un abito di broccato, può essere a sua volta un nobile. Infine, il personaggio centrale, un giovane scalzo e dai folti riccioli biondi chi sarebbe? Un angelo, una figura allegorica, oppure la figura di Oddantonio da Montefeltro, primo duca di Urbino?
Attorno all’identificazione di quest’ultimo personaggio ruoterebbe tutto l’impianto accusatorio nei confronti di Federico.
Un indizio importante su questa identificazione viene da una miniatura realizzata intorno al 1580 per la collezione di ritratti dell’arciduca Ferdinando del Tirolo nel castello di Ambras: il quadretto porta una didascalia che recita “Otto Antonius Urbini Dux I”. In esso, la somiglianza tra l’Oddantonio di Ambras (oggi al Kunsthistoriches Museum di Vienna) e il giovane nel dipinto di Piero della Francesca è impressionante.
Oddantonio nacque a Urbino il 18 gennaio 1427, dal conte Guidantonio e Caterina Colonna: il padre si assicurò da subito che al figlio andasse per successione la carica di vicario apostolico di Urbino e dei domini circostanti. Carica che ad Oddantonio fu ufficializzata nel febbraio 1443, con una bolla papale.
Due giorni dopo, Guidantonio riunì i propri dignitari e il figlio Oddantonio, impartì a quest’ultimo la benedizione e, poco dopo, morì. Dal testamento Oddantonio risultava erede universale:
tutte le “possessione e terre e case e cose… e voglio sia signore, rettore, governatore generale di tutto quello che possiedo e possiederò al tempo della mia morte, oltre ai lasciti che ho fatto”. Infine, un passaggio fondamentale: “E quando di me non rimanesse nessun figliolo maschio legittimo e naturale, né niun figliolo dei miei figlioli legittimi e naturali, lascio al mio erede universale Federico mio figliolo legittimato universalmente”.
Lo stesso giorno della sepoltura del padre, Oddantonio prese il potere: tutte le signorie e i comuni confinanti ne ebbero notizia, e rapidamente il papa conferì al giovane sedicenne il titolo di duca.
Il ducato di Urbino era fondamentale per le strategie pontificie. Il 26 aprile 1443, nel Duomo di Siena, ebbe luogo l’investitura di Oddantonio: il nuovo duca prestò giuramento di fedeltà alla Santa Sede e al papa e e giurò di difendere la Chiesa e i suoi possedimenti. Poco dopo Oddantonio fece ingresso trionfale ad Urbino, e nel luglio dello stesso anno si fidanzò con Isotta d’Este, sorella di Lionello, marchese di Ferrara.
Solo un anno dopo l’Italia delle corti veniva sconvolta dalla notizia che Oddantonio era stato assassinato insieme a due consiglieri, e che il fratellastro Federico ne aveva preso il posto. La presa del potere a Urbino, infatti, aveva dell’insolito: Federico era a Pesaro, dove ricopriva un compito militare; il 23 luglio 1444 era con ogni probabilità già sotto le mura di Urbino: da Pesaro a Urbino ci sono circa trentacinque chilometri, percorribili facilmente in cinque ore.
Nella notte tra il 21 e il 22 luglio 1444, un gruppo di congiurati penetrarono nel Palazzo ducale urbinate. La mezzanotte era passata da poco e con una trave sfondarono la porta degli appartamenti di Oddantonio e si scagliarono su lui e i suoi fidi: il consigliere Manfredo dei Pii e Ser Tommaso di Manfredo. Il primo cercò di difendersi con una spada, ma venne ucciso, il secondo venne pugnalato. Oddantonio, svegliato dal trambusto, cercò di nascondersi: i sicari ci misero poco a trovarlo. Il giovane duca fu ucciso con due pugnalate e un colpo di scure che gli spaccò la testa.
A quel punto, i cadaveri dei tre uomini furono gettati dalla finestra del palazzo ducale e la gente esasperata, si accanì con ferocia sui loro resti.
Alcune cronache (I Commentarii di Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II) si spinsero a dire che Oddantonio subì l’evirazione, e che il membro reciso gli venne messo in bocca a simboleggiare la sua vita dissoluta. Il popolo ce l’aveva proprio con lui, chiamato l’anima nera, non con la stirpe dei Montefeltro. Qualcuno cominciò allora ad invocare Federico, come duca. Tre staffette vennero allestite per arrivare a Pesaro, dove si trovava Federico.
Se solo avessero saputo che Federico era fuori delle mura di Urbino con la sua compagnia d’arme, che guardava in lontananza la città illuminata dalle fiaccole della rivolta, pronto ad entrare trionfalmente la mattina dopo. Questa fu l’entrata in scena di uno dei più grandi e scaltri condottieri rinascimentali, un uomo astuto e coraggioso, magnanimo e spietato. Un uomo che all’occorrenza sapeva anche giocare sporco!
Lo scontento verso Oddantonio fu alimentato dal discredito gettato sulla sua corte dal comportamento del duca e di alcuni consiglieri, accusati di vita dissoluta e di gravi molestie ad alcune donne urbinati. Alla congiura parteciparono anche alcuni degli esponenti della corte, come Pierantonio Paltroni, ed è possibile che tutto abbia avuto motivazioni non solo politiche.
I primi nomi dei cospiratori cominciarono a filtrare: tra di essi, Serafino dei Serafini, medico urbinate, assetato di vendetta perché “offeso nell’onore”: il consigliere Manfredo dei Pii, infatti, aveva violentato la moglie di questo illustre cittadino.
I congiurati presentarono subito a Federico un documento composto da ventuno articoli, che il nuovo duca approvò il giorno dopo la morte di Oddantonio: questa “costituzione” annullava molti dei provvedimenti del deposto signore, a cominciare dall’aumento delle tasse e dei tributi e prevedeva l’amnistia per i congiurati. Quanto alla “leggenda nera” sulla dissolutezza di Oddantonio, i pochi documenti arrivati a noi fanno emergere una passione smodata per i cavalli “belli e veloci”.
Un netto contrasto con le cronache coeve, terribilmente cupe: Oddantonio poteva avere tutte le donne della sua signoria, se avesse usato “un po’ di savoir faire”, ma lui amava metodi più spicci e o meglio brutali. Le faceva rapire e le stuprava, o le faceva stuprare dai suoi amici e a volte persino uccidere. Era conosciuto proprio per la sua crudeltà, pare abbia condannato al rogo, dopo averlo fatto cospargere di pece, un paggio solo perché si era dimenticato di accendere il lume all’ora solita. Inoltre ci sono tutti gli abusi perpetrati sul popolo con i suoi compari, Manfredi Pio e Tommaso Agnello. Due tipi che gli presentarono Sigismondo Pandolfo Malatesta, Signore di Rimini, nemico giurato dei Montefeltro.
Un modo subdolo per portare Urbino alla rovina e poi occuparne le terre. Tra i motivi dell’assassinio di Oddantonio, dunque, non vi era l’invidia di stampo familiare, Federico trovava sul terreno cittadino materiale fertile: Oddantonio si era circondato da consiglieri legati a Sigismondo Malatesta da Rimini, nemico giurato delle elite urbinati. Il rischio che Urbino finisse nella sfera di influenza dei Malatesta era troppo elevato.
Un personaggio dei tre presenti nella Flagellazione, dunque, sarebbe a tutti gli effetti Oddantonio. Rappresentato in tunica rossa (quella stessa “camixa” con cui era secondo le cronache al momento che arrivarono i sicari), il personaggio evoca il concetto del martirio. Anche la raffigurazione a piedi nudi della figura centrale evoca, secondo un’altra simbologia, un morto.
L’essere scalzi evocava anche la disposizione alla penitenza, alla bontà e al pellegrinaggio (mah!). Gli accenni all’accusa di Piero della Francesca nei confronti di Federico verrebbero fuori dall’interpretazione di un testo come la ‘Legenda aurea’ di Jacopo da Varazze; tra le righe, la Legenda dipingeva anche le origini di Pilato, seduto nel dipinto, sostenendo che il governatore romano discendesse, figlio illegittimo, dall’unione di un re e di un’umile ragazza di nome Pyla, figlia di un mugnaio. All’età di tre anni Pilato venne mandato dal re, che però aveva avuto un altro figlio legittimo e crescendo, Pilato fu dunque colto da invidia nei confronti del fratellastro, tanto da ucciderlo. Per punirlo, il re inviò Pilato a Roma come ostaggio, al posto del tributo che doveva annualmente pagare all’Impero. La spietatezza di Pilato convinse Roma ad affidare a quest’uomo compiti governativi nelle provincie più difficili, come il Ponto e la Giudea.
Questa leggenda avrebbe dovuto rievocare – nel dipinto di Piero della Francesca – la carriera ambiziosa di Federico da Montefeltro. Un osservatore mediamente istruito del XV secolo non poteva che guardare alla Flagellazione e afferrarne immediatamente il messaggio in codice contenuto.
La Legenda aurea (scritta nel 1270) era, in quel tempo, un “bestseller”, nonché una delle prime opere ad essere stampate in un numero di edizioni che superava addirittura la Bibbia e Piero della Francesca senza dubbio la conosceva.
L’incredibile intuizione di Piero della Francesca sarebbe stata quella di avvicinare, nel dipinto, due epoche e due mondi differenti, quello a lui contemporaneo e quello del Nuovo Testamento, per evocare un unico messaggio.
E per rimarcare che si trattava di due mondi diversi – un evento avvenuto nel passato remoto ma assurto a momento “eterno”, e cioè la Flagellazione del Cristo, e un fatto di cronaca nera politica contemporanea – il geniale pittore ricorse a due usi differenti della luce: la scena della Flagellazione è infatti illuminata da destra, mentre i tre uomini in primo piano sono illuminati da sinistra.
Un’altra ipotesi suggestiva è quella relativa al personaggio in primo piano sulla sinistra, l’uomo con la barba: c’è infatti chi – come il noto storico dell’arte Ernst Gombrich – ha visto nel personaggio barbuto Giuda Iscariota, e la scena rappresenta il momento in cui l’uomo ha appena restituito i trenta denari ai sacerdoti. Anche in questo caso, riferendosi in una storia “apocrifa” legata a Giuda, tornerebbe in scena il tema del fratellastro invidioso di un figlio legittimo: secondo alcune storie Giuda sarebbe stato abbandonato dai genitori naturali. Galleggiando su un fiume all’interno di una cesta, il neonato Giuda avrebbe raggiunto l’isola di Scarioth, dove raccolto dalla regina del luogo e allevato. La nascita di un figlio legittimo aveva tagliato fuori Giuda dalla successione al che, saputo di essere illegittimo, avrebbe ucciso il fratello. La storia ribadirebbe l’analogia del destino di Federico e Oddantonio…
Attraverso il potere dell’immagine e della simbologia, un dipinto accusava uno dei signori più potenti dell’Italia del XV secolo: Federico da Montefeltro.
Ricordiamo però che il dipinto fu commissionato a Piero, che lavorava proprio a Urbino, da Giovanni Bacci, che intendeva donarlo al signore di Urbino, Federico da Montefeltro; ma chi avrebbe osato donare a Federico un atto d’accusa così eclatante?
Anche qui un mistero difficile da risolvere… Oggi ci si avvicina alla storia di Federico con la freddezza scientifica delle analisi storiche, ma a quel tempo le “cronache” e le dicerie popolari diventavano presto sostanza e basti solo pensare a come questi sospetti segnarono l’intera vita di Federico duca di Urbino.
Inoltre il dipinto di Piero della Francesca si collocava simbolicamente proprio al centro della contesa spietata tra Federico e il rivale di Rimini, Sigismondo Malatesta che nel giro di due anni, avrebbe organizzato un fallimentare complotto per far assassinare Federico, durante il Carnevale del 1446.
Nel gennaio 1445 Sigismondo aveva offeso Federico definendolo “vigliacco e assassino” in presenza del cancelliere del cardinale Trevisan. Federico ci mise poco a ribattere che il signore di Rimini non era nient’altri che un figlio di nobili di seconda categoria: “marchesini zotici” del Bergamasco. A sua volta, Malatesta aveva replicato che la natura di Federico fosse quella di un traditore ed empio stupratore “di un’ebrea a Pesaro”, nonché un dissoluto che aveva trasformato il monastero di Fano in un bordello personale, ingravidando ben undici suore. Federico, dal canto suo, aveva ribattuto accusando Sigismondo, inoltre aggiungendo che, se Dante fosse stato ancora vivo, avrebbe inserito Sigismondo nell’Inferno al posto del conte Ugolino.
Per oltre due decenni, Federico e Sigismondo Pandolfo si scambiarono parole di fuoco, organizzarono vicendevoli attentati e complotti e non mancarono di realizzare alleanze di ogni tipo pur di contenere il potere del rivale: la posta in palio era il dominio di una regione strategica tra l’Adriatico e l’Appennino.
Bibliografia:
- Brend Roeck, Piero della Francesca e l’assassino, Bollati Boringhieri, Torino 2006;
- Pietro Allegretti, Piero della Francesca – Skira/Rizzoli, Milano 2003;
- Giovanni Scatena, Oddantonio da Montefeltro primo duca di Urbino, Roma, Ernesto Paleani Editore, 1989;
- Marco Folin, Corti italiane del Rinascimento. Arti, cultura e politica, 1395-1530, Milano, La grande officina 2010;
- Giovangirolamo De’ Rossi, Vita di Federico di Montefeltro, Olschki, Firenze, 1995.
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.