“Non bisogna aver paura di aver paura”,
soleva dire Franklin Delano Roosevelt, perché è questa una situazione ineliminabile della vita di ogni essere, anche in quella di chi passa per impavido, e solo la consapevolezza di doverci convivere può forse proteggerci da chi la usa o che la userà per fare i propri interessi.
Già Thomas Hobbes, nell’affrontare il problema della nascita della società, e quindi dello Stato, ammetteva che la situazione ‘naturale’ in cui si relazionano gli esseri umani fosse simile a quella delle belve.
Diceva “homo homini lupus”: cioè ogni uomo è un lupo per l’altro uomo, e in altre parole ciò che vige in natura è la legge del più forte e del più scaltro.
In tale situazione l’individuo sa però, grazie alla sua ragione, che può essere allo stesso tempo sia vittima che carnefice, e comincia quindi ad avere coscienza della sua paura, sviluppando il terrore di essere annientato.
E’ proprio tale paura che spinge la sua razionalità a stipulare un patto coi suoi simili ed istituire una società che diventa poi uno Stato, un organismo che si dota di regole.
Con lo Stato nasce così il diritto, e a tale istituzione ci si sottomette volontariamente per sfuggire allo stato di pericolo e quindi di paura in cui si rischia di vivere senza di essa, che ci fa sentire al sicuro.
L’importanza della paura, soprattutto di quella di morire, era già stata messa in risalto dai filosofi più antichi.
Si pensi, ad esempio, ad Eraclito, che affermava che “il motore della vita è la guerra”, nel senso che lo scontro con gli altri e la naturale angoscia per le sue atroci conseguenze è ciò che fa progredire l’umanità, escogitando mezzi migliori per difendersi ma, purtroppo, anche quelli per offendere meglio.
Dall’uomo delle caverne a oggi, dietro tante scoperte e altrettante conquiste premeva la spinta della paura.
Pensiamo un attimo al fuoco, che serve sì a scaldarci e a cuocere il cibo, ma che teneva anche lontane le belve dalle caverne, animali spesso molto più forti dell’uomo predatore, col rischio conseguente di diventare esso stesso preda.
Anche dietro tante importanti scoperte scientifiche, come cure e medicamenti, si cela il timore di soffrire o addirittura morire: si pensi alla preparazione di vaccini contro le malattie o alla creazione degli analgesici, in grado di alleviare i dolori più atroci.
Aldilà delle spinte più ovvie e naturali che regolano i rapporti tra l’uomo e le sue paure, se c’è una cosa che sembra essere peculiare dell’essere umano è l’uso del terrore come sistema di governo, cioè di potere.
Questo uso è stato più occasionale nell’antichità, o forse solo meno documentato, ma è certo che comunque anche allora fosse adottato.
Per accertarsene basterebbe pensare, per fare qualche esempio, alle liste di proscrizione di Silla o al repulisti sistematico dei propri nemici, fatto da Antonio e Ottaviano dopo la morte di Cesare, o alle persecuzioni sotto Cromwell e a quelle del periodo, detto appunto “del terrore”, durante la rivoluzione francese.
La pratica di incutere timore per tutelare il potere è invece diventata sistematica nel ventesimo secolo, invasiva al punto di influenzare anche la cultura e l’arte dell’uomo.
Il secolo precedente e quello attuale sono stati quelli della massificazione e del ritorno dei poteri totalitari.
Si pensi agli orrori dei regimi fascisti in Italia e in Spagna, agli innumerevoli pogrom contro gli ebrei nei paesi dell’Europa orientale, dalla Russia alla Romania, dalla Polonia ai tanti diversi staterelli dell’est continentale. Si pensi ai bombardamenti, non solo materiali ma anche quelli psicologici, che hanno colpito le popolazioni civili.
Non a caso il Novecento è stato il secolo che col nazismo ha prodotto lo sterminio sistematico, programmato. organizzato e realizzato, di tutto ciò che riteneva fuori dei suoi canoni ideologici: ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti e minorati psichici.
Col nazismo abbiamo avuto la burocratizzazione dello sterminio: si ricordi l’efficiente macchina di morte ideata da Eichmann, la eliminazione eugenica riservata prima ai malati mentali poi agli ebrei con la “soluzione finale” e la shoah.
Non va dimenticato però che, in questo caso, i nazisti non brillarono per originalità: l’eugenetica era un prodotto anglo-americano e i lager, oltre che nella guerra anglo-boera, erano già stati inventati dagli spagnoli nella repressione operata a Cuba.
Un altro eclatante esempio di uso del terrore si ebbe con la dittatura di Stalin, la programmazione delle carestie e lo sterminio di milioni di sovietici per fame o ottenuto usando come braccio armato la Ceka, cioè la polizia segreta.
Si rammenti che solo nei primi anni di governo Iosif Vissarionovič Džugašvili, ovvero Stalin, sterminò non meno 5 milioni di contadini ucraini che non accettavano il trasferimento nei remoti kolkhoz dell’URSS asiatica, trasferimento previsto nella sua pianificazione economica quinquennale.
Anche Stalin in fondo non inventò nulla, portò semplicemente alle estreme conseguenze una situazione già esistente.
Ricordiamo che Trotzky aveva teorizzato il mantenimento del potere mediante il terrore.
Lo fece nel periodo in cui era ancora in vita Lenin, che spesso però darà seguito ai suoi consigli.
Anche Mao Tse Tung fece ricorso al terrore con i famigerati villaggi di rieducazione nei quali gli oppositori venivano costretti ai lavori più mortificanti e umiliati in pubblico, arrivando addirittura alla ferocia delle pubbliche esecuzioni.
Diceva Mao: “Colpirne uno per educarne cento”.
Le feroci dittature sudamericane invece, oltre a torturare i nemici, si ingegnarono ad eliminarli in svariatissimi modi compreso quello di farli sparire nel nulla o di gettarli legati in alto mare da aerei che volavano a quote elevate.
Questo sistema di eliminazione venne praticato soprattutto in Cile e Argentina dai regimi militari che tenevano così le loro popolazioni sotto una cappa di terrore.
I Khmer rossi di Pol Pot fecero più di due milioni di morti in Cambogia, gente accusata a volte della colpa di saper leggere e scrivere, o addirittura di quella di usare gli occhiali!
I campi di concentramento, perfezionati da nazisti e sovietici, ebbero il loro preludio, come accennato, in quelli allestiti dagli inglesi in Sudafrica agli inizi del Novecento, l’epoca della guerra anglo-boera, resi operativi per “proteggere” le famiglie dei nemici boeri.
Il terrore nel XX secolo andrà ancora più perfezionandosi con le pulizie etniche, quelle già ricordate più il genocidio armeno, i crimini degli ustascia croati, con lo sterminio su base tribale del Ruanda e con la mattanza nella ex-Jugoslavia di pochi anni fa.
La paura, in conseguenza di questo stato di fatto, è stata sempre più presente nella letteratura, nel cinema, nell’arte in generale.
Quello scorso è stato il secolo in cui gli artisti sono stati perseguitati perché la loro arte era invisa ai regimi: nel nazismo si parlò di arte degenerata, nel mondo sovietico di formalismo.
Già prima la paura era apparsa come protagonista nei racconti, nei quadri e nella musica.
Si pensi a Polidori col suo vampiro, a Mary Shelley con il suo “Frankenstein”, a Fussli con le sue tele o a Mussorgsky.
Si ricordi la paura e la disperazione raffigurate da Gericault nella celebre “Zattera della medusa”, ed eravamo appena all’inizio dell’Ottocento.
Comunque, come si diceva, è nel Novecento che sono apparse le opere in tal senso più inquietanti.
Gli esempi sono infiniti, dal mondo allucinante di “1984” di Orwell alle angosce più recondite che si insinuano nel “Processo” di Kafka, da l’”Urlo” di Munch alle atmosfere lugubri di certe sinfonie di Dimitri Shostakovich.
Si pensi anche alla ‘musica per Lidice’ di Bohuslav Martinu, in memoria del villaggio ceco raso al suolo dai nazisti per rappresaglia.
E’ nel cinema però che troviamo i registi che hanno affrontato con frequenza maggiore il tema della paura.
Ricordiamo a questo proposito“Shining” di Stanley Kubrick, ispirato da un romanzo di Stephen King, un film dove di pauroso si vede ben poco, ma dove è più evidente e inquietante il richiamo alle paure più ancestrali, alle fobie più profonde dell’uomo isolato dal mondo, lasciato in balia della propria psiche.
Ricordiamo che lo stesso Kubrick in “2001 Odissea nello spazio” aveva affrontato la solitudine dell’uomo in un universo pronto a distruggerlo, come recitava un pensiero di Pascal nel Seicento, e la sua paura di fronte all’immensità dello spazio e a messaggi che non sa spiegare, rappresentati efficacemente da un enigmatico monolite nero.
Altra suggestiva meditazione sul terrore e sul potere la si può rintracciare in “Brazil” di Terry Gilliam, film nel quale vengono sapientemente miscelati l’Orwell di 1984 e le atmosfere di Kafka, il tutto condito con l’humor nero, caratteristico dei Monty Phyton.
Si pensi poi a quel capolavoro dell’inquietudine che è il film “Gli uccelli” di Hitchcock, in cui la minaccia incombe su una piccola comunità, senza una logica apparente: arriva e all’improvviso scompare, dopo un’ora e mezzo di terrore subliminale. Resta misterioso il motivo dello scatenarsi della furia degli uccelli come pure del suo altrettanto improvviso placarsi.
E in tema di arte e paura si riguardino il terrore dipinto nei volti dei personaggi di Guernica di Picasso o i quadri inquietanti di Alfred Kubin che, come Freud con la psicoanalisi, scavano nell’inconscio dell’uomo.
Ma il terrore, oltre che per governare, per gestire il potere, può essere usato anche per destabilizzare una situazione o uno stato di fatto che si vuol mettere in crisi.
Da poco sono venuti alla luce mezzi più raffinati per incutere timore. La paura delle bolle finanziarie portò tanta gente a rovinarsi, quella del giovedì nero della Borsa innestò la micidiale crisi del 1929, l’ultima ondata di paura finanziaria si legò al nome di Lehman Brothers del 2008 e ancora oggi se ne avvertono pesantemente le conseguenze.
Ai giorni nostri infatti è l’economia ad essere spesso usata come mezzo, se non come vera e propria arma, per spaventare e manipolare più facilmente le società.
Vediamo quotidianamente giornalisti economici giocare a chi la dice più grossa col puro scopo di spaventare gli investitori e far crollare certi titoli. Evitando le reazioni d’istinto forse basterebbe un attimo di sana razionalità per non cedere alle paure, ponendosi la domanda:
“Ma se io sto svendendo i miei titoli, chi è quel fesso che li sta comprando? o il fesso da manipolare sono io?
Spesso la stampa non è che la grancassa che si usa per spingere i pesci piccoli nelle fauci dei pescecani, quelli che attraverso il potere economico finiscono per controllare quello politico.
Gli ultimi ritrovati usati per incutere paura hanno un nome che sembrerebbe innocuo: ”fake news”.
Le false notizie rappresentano a mio avviso uno dei pochi lati negativi che internet ha introdotto per i non pochi danni che producono ogni giorno, protette dall’anonimato che il web assicura.
Ci sono molti modi per diffondere false notizie nell’opinione pubblica oppure presso determinati gruppi di persone.
Può farlo la propaganda in un regime autoritario, come una fotografia ben ritoccata e pubblicata su un giornale o su un blog, oppure lo stesso risultato può essere garantito dall’interpretazione volutamente distorta di un fatto o da un falso commento su un social network.
Più è veloce il mezzo e più veloce è la diffusione dei contenuti.
Più è estesa la platea dei primi destinatari e più questa platea si amplierà in progressione.
Melissa Zimdars, insegnante di scienza delle comunicazioni al Merrimack College del Massachussetts, correttamente ha definito fake news quelle fonti che “inventano del tutto le informazioni, disseminano contenuti ingannevoli, distorcono in maniera esagerata le notizie vere”.
Si può, quindi, parlare di fake news anche quando ci si trova davanti a contenuti che sono stati generati con lo scopo di ingannare la platea dei destinatari, condizionando e orientando le idee e i comportamenti dell’opinione pubblica.
Bisogna, ovviamente, distinguere il destinatario finale cui si rivolgono le fake: se si fa circolare su una chat di un gruppo di conoscenti una notizia burla su un amico comune, la fake non solo sarà scoperta presto, ma la platea dei destinatari sarà minima e con zero incidenza sull’opinione pubblica.
Se invece si facesse circolare la notizia che in un ristorante si consumano per esempio crimini pedopornografici e come conseguenza qualcuno imbracciasse un’arma e facesse giustizia con le proprie mani, l’incidenza di quella notizia sarebbe ben diversa.
E proprio questa non è una fake news: il fatto è accaduto davvero nel 2016, quando un giovane del North Carolina è andato fino a Washington armato di un fucile da guerra AR-15. Cercava una pizzeria, la Comet Ping Pong, la trovò ed entrò nel locale armi alla mano, terrorizzando i clienti.
Si arrese alla polizia solo dopo aver perlustrato e perquisito tutto il locale.
Influenzato da una falsa notizia stava cercando il luogo dove l’allora candidata democratica alle presidenziali americane, Hillary Clinton, avrebbe organizzato un traffico di prostituzione minorile.
Quelle che erano una volte chiamate “bufale” oggi possono facilmente condizionare partiti, nazioni o perfino il mondo intero ed è difficile credere che vengano messe in giro involontariamente.
Chi subisce l’effetto della paura o anche della rabbia è più facilmente manipolabile e manovrabile perché parte già da uno stato psichico alterato.
Le fake news sono pericolose perché, cambiando la percezione della realtà, possono modificare le opinioni e i comportamenti delle persone. Su internet le masse di utenti si comportano spesso come la folla esagitata in una piazza, col rischio di essere preda degli istinti più irrazionali e brutali.
Può facilmente accadere perché spesso nessuno va a verificare la fondatezza della fake: per il solo fatto che sia postata su un blog, un social o una chat, per gli sprovveduti è già una garanzia di veridicità,
una specie di bollino blu!
Oggi si possono diffondere fake news per calpestare la dignità di avversari politici, per infangare concorrenti negli affari, per dirottare parte dell’opinione pubblica indirizzandola contro qualcuno o contro qualcosa, e lo si può fare perfino per sovvertire il sistema politico di un paese.
Si possono anche studiare fake a tavolino e diffonderle per affondare commercialmente un prodotto, per screditare una teoria scientifica, per far crollare azioni in borsa, per pilotare elezioni politiche o per distruggere reputazioni.
Si legge nel Principe del Machiavelli, cap. XVIII:
“Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’ Principi … si guarda al fine … I mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati”.
Come aveva ragione il buon Niccolò!
Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.