Prima parte: Il libro ritrovato
Nel 1978, a Radom in Polonia, due operai erano impegnati nella ristrutturazione di una casa. Durante i lavori, dalla terra sottostante ai gradini di una vecchia scala, affiorò una bottiglia sigillata che immediatamente catturò la curiosità di quei due uomini.
Era piena zeppa di piccole strisce di carta fittamente scritte in yiddish, il dialetto degli ebrei orientali. Gli operai ebbero la percezione che quella bottiglia potesse avere una qualche importanza e la portarono a Varsavia, all’Istituto Storico della Resistenza.
Qui, una volta aperte, spiegate, e messe in condizione di poter esse lette, quelle infinite striscioline composero un vero e proprio tesoro storico letterario.
Esse infatti svelarono un racconto: la storia appassionante della comunità ebraica di Plock e del suo percorso nel dramma, verso la sua distruzione da parte dei nazisti.
Si chiarì che l’autore di quel testo era Simha Gutermann, un ebreo polacco con la vocazione dello scrittore che, nell’imminenza prima e nel progredire poi, di uno dei maggiori crimini commessi contro l’umanità, aveva coscientemente deciso di utilizzare il suo talento per scrivere una testimonianza della vita e del destino della sua comunità, di mettere a punto così uno strumento che li tramandasse, andando oltre l’oblio.
Il libro iniziava nel 1939, alla vigilia della guerra, a Sendin, una località di vacanza nei boschi in cui Gutermann si recava con la famiglia.
Le circostanze che si presentarono fecero sì che, in quell’anno e a partire da quel luogo, prendesse le mosse una continua fuga.
Lui e suo figlio Yakov attraversarono il paese con documenti falsi, ma dovunque i due riuscissero a fermarsi, dovunque riuscissero a trovare riparo e sicurezza temporanei, proseguiva fittissima l’opera di scrittura di Gutermann, che cominciò a seppellire bottiglie con dentro stipati i suoi piccoli manoscritti, cercando contemporaneamente di far imprimere nella memoria di suo figlio i luoghi dell’interramento.
La storia che attraverso quella bottiglia ci arrivò dopo svariati decenni, era una sorta di romanzo testimonianza sulla vita della comunità ebraica di Plock dal 1939 in poi, prima cioè del conflitto, raccontata con arte consumata, dando rilievo vivace alle personalità dei suoi membri e, come sempre accade nella letteratura yiddish, condendola di aneddoti e di umorismo anche all’interno di un cammino drammatico.
Quello del cosiddetto ”libro ritrovato” di Simha Gutermann è l’ennesimo caso in cui l’abilità narrativa ebraica riesce a vivificare e rendere universale il racconto della vita di una particolare comunità di persone.
Con addosso la febbre di non disperdere un solo aspetto della vicenda che sentiva l’obbligo di raccontare, l’autore ha delineato il percorso di dissoluzione del suo mondo, tra crescenti torture, ingiustizie e vessazioni, senza nascondere nemmeno le pagine meno gloriose che si registrano in questi casi, legate alla debolezza della natura umana.
Così anche le vittime hanno espresso alcuni complici nella loro persecuzione, individui che individualmente o all’interno dei Consigli giudaici non avevano difeso o avevano avallato per istinto di conservazione la rovina di altri di loro. In seguito al riemergere così avventuroso della bottiglia, venne rintracciato in Israele il figlio di Gutermann, Yakov, sopravvissuto perché messo in grado di partire prima dell’ultimo capitolo della Shoah.
Si può immaginare l’emozione sconvolgente che deve aver provato quest’uomo a veder ricomparire dopo quarant’anni e tante tragedie, quei foglietti che suo padre riempiva durante le loro peregrinazioni alla ricerca della salvezza.
Nonostante la promessa fatta a quel tempo, Yakov aveva dimenticato, comprensibilmente, i luoghi in cui erano state nascoste altre bottiglie, certamente più d’una perché lui ricordava il padre “sempre con la penna in mano”.
Il destino ha voluto che la disperata caparbietà di Simha Gutermann venisse premiata e che la sua testimonianza ci arrivasse in tutta la sua forza ed espressività.
Lui, in contrasto con la tesi che vuole che gli ebrei siano andati incontro al loro destino senza combattere, unì a quella della penna la resistenza delle armi: morì combattendo nella rivolta del ghetto di Varsavia, un esempio del sommarsi di eroismi individuali e collettivi che fu tanto più grande in quanto esercitato senza speranza di vittoria.
“Il libro ritrovato” è stato tradotto in italiano e pubblicato dalla Casa Editrice Einaudi.
Piermario De Dominicis, appassionato lettore, scoprendosi masochista in tenera età, fece di conseguenza la scelta di praticare uno sport che in Italia è considerato estremo, (altro che Messner!): fare il libraio.
Per oltre trent’anni, lasciato in pace, per compassione, perfino dalle forze dell’ordine, ha spacciato libri apertamente, senza timore di un arresto che pareva sempre imminente.
Ha contemporaneamente coltivato la comune passione per lo scrivere, da noi praticatissima e, curiosamente, mai associata a quella del leggere.
Collezionista incallito di passioni, si è dato a coltivare attivamente anche quella per la musica.
Membro fondatore dei Folkroad, dal 1990, con questa band porta avanti, ovunque si possa, il mestiere di chitarrista e cantante, nel corso di una lunga storia che ha riservato anche inaspettate soddisfazioni, come quella di collaborare con Martin Scorsese.
Sempre più avulso dalla realtà contemporanea, ha poi fondato, con altri sognatori incalliti, la rivista culturale Latina Città Aperta, convinto, con E.A. Poe che:
“Chi sogna di giorno vede cose che non vede chi sogna di notte”.