Niente pupe, mi dispiace!
Eravamo poco più che ragazzini e quando vedevamo una suora, perfettamente al corrente della diffusissima diceria che portasse sfortuna, senza dare troppo nell’occhio, davamo la classica “grattatina” a quella parte del corpo che sta a mezza strada tra il torace e le ginocchia. A volte, se stavamo con un amico, strillavamo rapidi: “Tua!”, per passare a lui l’imbarazzante incombenza.
Poverine, non so perché la si pensasse così, ma tant’è: era così e basta.
Quando ne vedevi passare più di una, la sfiga presunta veniva valutata in crescita esponenziale, e conseguentemente crescevano le grattatine.
La mia infanzia l’ho vissuta a Roma, fra i quartieri Marconi, Eur e Monteverde. A quel tempo non c’era il traffico che c’è ora, così giocavamo a pallone in mezzo alla strada e quando vedevamo arrivare una macchina eravamo costretti a fermarci e a togliere gli zainetti che delimitavano la porta. Una volta passata l’auto, si rimetteva tutto a posto e si ricominciava a giocare.
Un giorno come tanti altri, all’uscita di scuola, dopo aver comprato il sospirato cartoccetto di fusaje dal fusajaro, ci accingevamo a fare la solita partitella.
Piazzammo gli zainetti come pali delle due porte e cominciammo quel rituale che emulava le imprese dei nostri eroi dell’epoca: Mazzola, Facchetti, Domenghini e altri ancora.
In quel frangente il mio ruolo (deciso dagli altri) era quello di emulo di Cudicini, l’altissimo e bravissimo portiere del Milan.
Tutto sommato me la stavo pure cavicchiando discretamente, con qualche respinta e qualche uscita un po’azzardata ma fortunata. Tutto funzionò fino a che non ci fu un fallo perpetrato da un mio compagno di squadra ai danni di quello che era il mio compagno di banco, che però in quel frangente stava tra i miei avversari.
Si chiamava Scarnecchia, e sì, era proprio lui, il futuro giocatore della Roma.
Di Roberto ricordo bene una cosa: era mancino, e bravissimo a giocare a calcio, ma non portava mai le scarpe da ginnastica. Stava sempre con i mocassini ai piedi. Noi giocavamo per strada o su campetti di cemento e quindi lui, per via delle suole di cuoio, scivolava spessissimo.
Mi ricordo bene che anche quando giocava con la Roma stava sempre per terra, e dire che allora gli scarpini ce li aveva!
Ma torniamo a noi, e a quel giorno: l’arbitro, zelante, tirò fuori dalla tasca una figurina bisvalida della Panini e la parò, come un esorcista col suo crocifisso, davanti alla faccia costernata del mio compagno, che prese a piagnucolare le solite frasi di rito: ” E’ stato lui a mettere la caviglia davanti al pallone…”.
La decisione, però, cadde sulle nostre teste, dritta e affilata come la lama di una ghigliottina: era calcio di rigore e l’avrebbe tirato Scarnecchia.
I miei compagni mi vennero vicino, mi incoraggiavano. Qualcuno mi diceva all’orecchio: “Buttati a sinistra, che i mancini tirano sempre da quella parte!”.
Roberto prese una lunga rincorsa, io stavo teso e pronto a scattare. Partì infine il tiro, piuttosto centrale e molto violento.
La pallonata mi beccò in pieno volto, come una fucilata e l’ultima cosa che vidi furono i miei compagni che mi si gettavano addosso festanti per abbracciarmi: “Bravo, bravo: l’hai parata!!”.
Poi il buio
Quando ripresi conoscenza sentii il sapore dolciastro del sangue nella bocca. Aprendo gli occhi vidi tutto nero. Poi fu il sole e poi di nuovo nero.
Pensai allora di essere nel regno dei più, ma quel nero alla fine si rivelò essere una stoffa, sì, una stoffa nera, anzi, più che stoffa sembrava… un velo!!?? Più precisamente il velo di una suora piegata su di me, che con un fazzoletto mi tamponava il naso pesto e dolorante.
Non ebbi la forza di darmi la grattatina… La ringraziai anzi. Lei si rialzò e ci fece una leggera ramanzina sul fatto che era pericoloso giocare per strada e poi, con quei palloni così duri! Risalì sul pulmino dove erano sistemate altre suore, un pulmino pieno zeppo di suore: CAZZO!!!
Il pulmino non era quello classico delle monache (Fiat giardinetta, generalmente verde), era roba della Volkswagen (dovevano essere ricche quelle suore). Ricordo perfettamente anche il colore: azzurro spento e bianco.
Per molto tempo pensai che tutte le suore ricche del mondo girassero con quel mezzo.
Da quel giorno in poi lo vidi passare spessissimo, sempre con la stessa suorina alla guida, probabilmente l’unica che avesse la patente. Lo vedevo sfrecciare su Viale Marconi, poi all’Eur, poi a Magliana, poi di nuovo a Marconi: insomma su e giù tutti i giorni.
Era un gran bel furgoncino e aveva una storia particolare. Fu costruito quasi per caso e chiamato affettuosamente “BULLI”.
E’ il soprannome con il quale i tedeschi hanno sempre chiamato il classico pulmino Volkswagen Transporter, e Bulli, infatti, deriva dalle iniziali delle parole Bus e Lieferwagen (quest’ultima significa furgone, autocarro per consegna merci), integrate per ragioni di praticità fonetica dalla lettera intermedia “l”. La parola evoca un aggettivo tedesco perfettamente calzante: bullig, vale a dire vigoroso, muscoloso.
Ed eccola allora la storia della nascita del Transporter
Nel 1947 l’importatore di automobili olandese Ben Pon, che aveva un nome alquanto poco olandese senza neanche un van bah, era in visita ad una delle fabbriche tedesche della Volkswagen per vedere come funzionava la produzione della Beetle, quello che in Italia chiamavamo Maggiolino.
Fu colpito dall’aspetto di un carrello che serviva a trasportare materiali d’uso pesanti da un reparto all’altro della fabbrica, un carrello che era stato arrangiato con pezzi del Maggiolino stesso.
Fulminato da una splendida intuizione Ben abbozzò il disegno di un veicolo commerciale leggero che aveva più o meno le stesse fattezze del carrello e lo propose a Heinrich Nordoff, il proprietario della casa automobilistica tedesca. L’idea piacque e subito si iniziò a lavorare sul progetto che vide la luce 3 anni dopo, nel 1950.
Bulli il transporter, ebbe un enorme successo per via delle dimensioni tutto sommato contenute anche se si trattava pur sempre di un veicolo adibito al trasporto di cose o persone.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la novità fu rendere il più corto possibile il veicolo da trasporto leggero, in modo da poter manovrare al meglio nelle città europee, massimizzando inoltre lo spazio di carico.
Il pulmino Wolkswagen – a volte conosciuto come Type 2 (il Type 1 era il Maggiolino) – cambiò tutto spostando il suo motore raffreddato ad aria sul retro, permettendo al guidatore e al passeggero di godere di un abitacolo relativamente ampio, senza troppo rumore o calore.
Aveva anche la caratteristica di poter essere personalizzato e utilizzato per gli usi più disparati.
Piaceva alle suore appunto, ai professionisti, agli imprenditori, ai trasportatori, ai viaggiatori, alle famiglie numerose, alle associazioni, piaceva, insomma, a una folla variegata di tipi umani. Eccolo, nelle sue vesti più disparate.
Alla fine degli anni ’60 Bulli ebbe poi un’ulteriore impennata di gradimento: i neonati hippies lo consacrarono come mezzo di locomozione prediletto e come loro residenza viaggiante.
La Volkswagen ebbe al momento giusto un bel colpo di fortuna e un conseguente monopolio, per il solo fatto di aver proposto dei camper dall’aspetto piacevole ed economico, facilmente distinguibili come non-americani, proprio quando il movimento della controcultura invase gli USA. Gente benevola che portava fiori nei capelli iniziò a guidarli, a viverci dentro, ad andarci ai festival.
Fu l’apoteosi di quel veicolo.
Si scatenò così la caccia al Bulli usato, sgangherato, a pezzi, tutto da risistemare, personalizzare e colorare.
Io finii per non fare più il portiere, feci la punta, quella che tira le saracche,
mentre Bulli invece diventava il mito della beat generation.
E delle suore, naturalmente.
Andò definitivamente in pensione nel 2013, dopo 63 anni di storia, ma non si sa mai, potrebbe ritornare, magari in versione elettrica e si sa quanto le religiose (almeno quelle ricche), siano attente ai problemi di inquinamento…
Nato lo scorso millennio in quel luogo che, anche da Jovanotti, è definito l’ombelico del Mondo, Klaus Troföbien alias Carlo De Santis è ritenuto un vero cultore ed esperto di filosofia e costume degli anni 70/80.
È un ardente tifoso della squadra di calcio della Roma, ma non di questa odierna semiamericana e magari presto cinese, ma di quella di Bruno Conti, Ancellotti, Di Bartolomei, di quella Roma insomma che allo stadio ti teneva 90 minuti in piedi e 15 minuti seduto; è inoltre un collezionista seriale di oggetti vintage che vanno dalle cartoline alle pipe, dalle lamette da barba ai dischi in vinile.
I suoi interessi sono la musica pop rock blues psichedelica anni ’70/’80, la fotografia, la cultura hippie, i viaggi, la moto, il micromondo circostante.
Grazie ad una sua fantasmagorica visione è nata Latina Città Aperta, della quale è il padre, il meccanico e il trovarobe.
Politicamente è stato sempre schierato contro.
Spiritualmente, umilmente, si colloca come seguace di Shakty Yoni, space wisper di Radio Gnome Invisible.
Odia rimanere chiuso nell’ascensore.
Da qui la spiegazione del suo eteronimo.
Un pensiero criticabile ma libero, una mente aperta a 359 gradi.
Ma su quel grado è intransigente.
Chi ha scritto il pezzo calcio-suore-transporter ha la mia età. Sono pronto a scommettere!
Il nostro Klaus è nato nel 1958! 🙂