La carta del Carnaro: ma fu davvero fascismo? Parte prima

Una premessa: non sono un ammiratore di D’Annunzio, né come poeta né come uomo, ma con questo non si può disconoscere la funzione di specchietto per le allodole che la sua figura rappresentò, abilmente sfruttata, come fu, da potenti ben nascosti.
Oscar Sinigaglia, ad esempio, fondatore delle acciaierie Ilva.
Col suo Comitato d’azione, ben spalleggiato dai gradi più alti dell’esercito, (Badoglio e Diaz tra gli altri) e da parte del mondo finanziario (Toeplitz e la Banca commerciale), seppe usare, senza che il poeta se ne rendesse conto, il suo smisurato ego per aizzarlo a fare un gesto plateale che mettesse in forse la stabilità dello stato per favorire il duca d’Aosta.
Quest’ultimo mirava al trono e avrebbe voluto formare un governo che fosse il più reazionario possibile, favorevole alle speculazioni di una industria che si andava trasformando in post-bellica.
Aleggiava insomma un vero e proprio golpe, ben prima della marcia su Roma, questione di cui chiaramente parla Lucio Villari nel suo libro “la luna di Fiume” uscito da poco.

Gabriele D’Annunzio

Attraverso la documentazione delle idee e dei fatti, che faranno discutere, viene fuori un D’Annunzio sicuramente inedito, che viene dipinto come un violento eversore col suo progetto di distruggere la democrazia liberale italiana, poco dopo la fine della prima guerra mondiale, e col suo non voler mollare il bellicismo.

 “D’Annunzio fu sicuramente e paradossalmente più a destra di Mussolini” dice Villari “e il poeta soldato era guerrafondaio, nazionalista, adoratore della violenza e del sangue.
Dopo Fiume sperò nel 1919-1920 in una marcia su Roma senza timore di rischiare una guerra civile, per rovesciare con un colpo militare il governo prima di Nitti, poi di Giolitti e deporre Vittorio Emanuele III per sostituirlo sul trono col Duca d’Aosta, uomo di estrema destra e suo ammiratore”.

Il pretesto di tutto fu la famosa invenzione della ”vittoria mutilata”, di fronte al risultato della Conferenza di pace di Versailles, in cui gli stessi alleati dell’Italia non trovarono alcuna ragione politica, giuridica o diplomatica per assegnare la città di Fiume al nostro paese, invece che alla nascente Jugoslavia.
Da qui l’idea e l’attuarsi del colpo di mano di Fiume da parte di D’Annunzio e dei suoi legionari, che fecero della città una sorta di porto franco di violenza e di libera circolazione della droga, a cominciare dalla cocaina, oltre che di ogni possibile amore libero.

Gabriele D’Annunzio a Fiume – 1919

Non si può non ricordare, rievocando quei fatti, il protagonismo del Vate, un uomo che per far risaltare il suo nazionalismo appoggiò alla guerra di Libia.
Certamente va ricordato pure che perfino Labriola ne fu a favore: non si dimentichi, infatti, il rapporto di collaborazione che d’Annunzio ebbe con i socialisti all’inizio del secolo ed il suo passaggio eclatante dalla destra alla sinistra in occasione del bombardamento di Bava Beccaris.
D’Annunzio “voleva e doveva” essere sempre al centro dell’attenzione

La presa di Fiume è stata sovente banalizzata, asserendo che fu il prodromo del fascismo: forse fu anche quello ma non è corretto pensarlo in modo totalizzante perché fu invece il fascismo che si appropriò poi di molti temi e rituali fiumani, riti che erano nati con uno scopo ben diverso, molto lontani dagli ideali fascisti di regime.
Dentro la vicenda fiumana ci sono elementi non univoci.
Si rammenti, infatti, che molti dei legionari in seguito, come tanti sansepolcristi delusi, non appena sentirono puzza di bruciato, osteggiarono quel regime.

Si pensi solo che la “Carta della Reggenza” si fondava sui principi che dovevano essere alla base di un sistema democratico e affrontarono questioni che si sarebbero sviluppate solo molto tempo dopo, in un’Italia democratica e repubblicana.

La Carta poneva le sue basi nelle costituzioni preunitarie, tra cui quella della Repubblica Romana, e per i suoi contenuti giuridici, economici e soprattutto sociali, aveva una portata senz’altro rivoluzionaria rispetto al vecchio Statuto Albertino, che fu Costituzione del Regno d’Italia dal 1848 fino alla instaurazione della Repubblica odierna.

A Fiume convivevano diverse nazionalità: croati, ungheresi, tedeschi, serbi, sloveni e, secondo gli archivi asburgici, il gruppo più numeroso era quello italiano.

Con la Reggenza italiana del Carnaro venne delineata una repubblica aconfessionale (anche se ogni tipo di culto era ammesso), democratica, profondamente egualitaria e con evidenti richiami al modello sovietico che D’Annunzio ben conosceva.

Nel 1919 fu proclamata la Reggenza di Fiume e a tale impresa parteciparono forze molto eterogenee, spesso tra loro agli antipodi, nel panorama politico del primo dopoguerra,.
Alcune di esse identificabili nei delusi che erano ritornati dal fronte, dagli Arditi fino a giungere ai rappresentanti più intransigenti dell’interventismo di sinistra e del sindacalismo rivoluzionario.

Quella fiumana, di conseguenza fu un’esperienza utopica per una nazione che stentava a trovare la propria posizione nell’Europa, specie dopo la misera figura fatta alla Conferenza di Pace di Parigi nel 1919, dove essa pretendeva anche ciò che non era previsto negli “accordi di Londra”, presi per l’entrata in guerra italiana.

A Fiume era però necessario che all’iniziale euforia seguisse l’emanazione di norme che regolamentassero la vita cittadina.
Per questo lo “Stato Maggiore della Reggenza”, in cui figuravano anche De Ambris e D’Annunzio, decise di emanare l’8 settembre 1920 la Carta della Reggenza del Carnaro.

In essa emergeva la mescolanza dei diversi ideali presenti a Fiume: nella Carta era previsto quindi uno Stato con un sistema di democrazia diretta.
Al suo interno, inoltre, si varò una normativa sociale: veniva contemplato un sistema assistenziale e pensionistico in aiuto dei cittadini.
Addirittura, nello Stato fiumano si applicò il suffragio universale, senza alcuna distinzione di sesso, classe, razza e religione.

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Per De Ambris Fiume era una polis nella quale ogni individuo e componente sociale erano utili e necessari allo Stato, al punto che la società venne divisa infatti in sette corporazioni, ognuna con una propria rappresentanza nell’organo legislativo.

Lo Stato era provvisto naturalmente di un organo esecutivo e di una Corte Suprema in grado di dirimere le controversie legislative e istituzionali.

Nell’impresa fiumana erano presenti almeno tre componenti: quella nazionalista, quella libertaria dei sindacalisti rivoluzionari, ed infine quella rappresentata da un buon numero di avventurieri e teste calde, ufficiali disoccupati dell’esercito e veterani appena smobilitati.

Alceste De Ambris

Alceste De Ambris, apparteneva alla seconda componente.
Nato nel 1874, aveva aderito alla fazione anarchica del sindacalismo europeo, organizzando scioperi e fondando l’Unione sindacale italiana.
Era poi stato eletto alla Camera con i socialisti nel 1913 e si era espresso per l’intervento dell’Italia in guerra nel 1915.

Nelle parole di De Ambris, Fiume era una Città-Stato fondata sul lavoro, in cui “la proprietà privata era riconosciuta ma doveva avere una funzione sociale”, uomini e donne godevano degli stessi diritti e i cittadini votavano a vent’anni.

In attesa dell’annessione all’Italia, il piccolo Stato fiumano avrebbe avuto una Camera dei rappresentanti, un Consiglio economico formato dalle sette corporazioni, un esecutivo sul tipo di quello della Confederazione elvetica, e una Corte suprema chiamata a deliberare sui conflitti istituzionali e sulla correttezza costituzionale delle leggi.
Con il diritto di voto i cittadini di Fiume avrebbero avuto anche quello di promuovere referendum e di revocare le cariche pubbliche. Come si può notare questi principi riappariranno più tardi nella nostra Costituzione del 1948.

La “Carta del Carnaro” era una costituzione forse visionaria che univa le idee confuse dei dannunziani con lo spirito rivoluzionario e pragmatico di Alceste De Ambris, l’uomo che ispirò e che redasse de facto la carta fiumana.

Alceste De Ambris

Essa fu scritta nella speranza di estendere a tutta l’Italia quel movimento di ispirazione social-rivoluzionaria e repubblicano che stava prendendo forma a Fiume, perché il movimento doveva, secondo il pensiero degli estensori, servire a “prendere Roma”, con le buone o le cattive.

Il nuovo statuto sanciva infatti una repubblica democratica in cui l’attuazione delle leggi era affidata a sette rettori, con, al vertice del sistema, un comandante, che poteva assumere poteri dittatoriali “solo nei casi di estremo pericolo”.

La “Carta” assegnava inoltre un ruolo dirigente alle organizzazioni sindacali, estendeva il suffragio universale anche alle donne e introduceva il divorzio.
Divenne usuale allora per molti italiani spingersi fino a Fiume per divorziare, come si fece poi in Messico e Svizzera fino al 1970.
Alceste De Ambris aveva raggiunto Fiume nel gennaio del 1920, dopo che la città era stata presa da D’Annunzio coi suoi Legionari il 12 settembre 1919. L’avventura, com’è noto, terminò poco dopo: con il Trattato di Rapallo del 20 novembre 1920 Fiume venne dichiarata città libera ed il 26 dicembre dello stesso anno il governo italiano costrinse i legionari a sgomberare con la forza.
L’esperienza fiumana oggi compie un secolo di vita, ma conserva ancora motivi di interesse sul piano politico e giuridico.

Gabriele D’Annunzio in divisa da comandante su una cartolina di Fiume, 1921.

Come accennato, la Costituzione fiumana del 1920 ebbe caratteri assai avanzati per il momento storico in cui vide la luce, con non poche anticipazioni di ciò che sarebbero stati degli istituti attuali ed una struttura sociale di grande apertura verso ipotesi che non sarebbe azzardato definire progressiste.

Nel 1956, quando la Rivoluzione Ungherese venne stroncata dai carri sovietici, Sartori la definì “una sublime follia”, che rimase tale nonostante il grido di dolore di Imre Nagy dai microfoni della radio di Budapest prima del crollo.                  
Considerazioni analoghe si possono fare per la Reggenza, che già dall’inizio aveva la sorte segnata, nonostante avesse vissuto momenti di grande visibilità internazionale, come la visita di Guglielmo Marconi ed il concerto che il giovane Arturo Toscanini diresse a Fiume nel novembre del 1920.

L’Italia di Fiume era “lo specchio fedele di quella uscita dalla grande guerra”, come D’Annunzio ed i suoi spesso dissero, ma i loro appelli a sostenere quella esperienza caddero nel vuoto, tanto a destra quanto a sinistra: i protofascisti, e Mussolini in primis, consideravano l’azione fiumana “troppo pericolosa” e preferirono disinteressarsi del suo destino al punto da anteporgli una sorta di accordo con Giolitti, mentre la sinistra aveva respinto il “fiumanesimo” perché le sue forze erano troppo deboli e divise tra loro per poter tentare alcunché di concreto.

La Carta di Fiume andava oltre questo panorama politico: era innovatrice.
Anche se la fedeltà alla patria comune era fuori discussione, la cesura con l’Italia liberale di allora non poteva essere più netta, perché con questo documento prendeva forma uno stato socialmente molto più avanzato.

Lo provavano le sue enunciazioni dei diritti fondamentali, la dove De Ambris scriveva che

“il governo apparteneva al popolo sovrano senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe e di religione

Vi erano enunciazioni che garantivano tutte le libertà essenziali, come quelle di pensiero, stampa, riunione ed associazione.

Erano assicurati i diritti all’istruzione, educazione fisica, giusto salario, assistenza, previdenza e congruo risarcimento dei danni derivanti da errori giudiziari.

Particolare rilievo assumeva la normativa sulla proprietà, dove si affermava che tale diritto non era “il dominio assoluto della persona sopra la cosa ma la più utile delle funzioni sociali”. Ne conseguiva che il proprietario non poteva lasciare improduttivo il suo bene e che soltanto il lavoro “è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale”.

L’apporto qui di Alceste de Ambris raggiungeva livelli massimi e si sarebbe dovuto attendere la Costituzione del dopoguerra per ritrovare nel nostro ordinamento il riconoscimento della proprietà privata e dei suoi limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale” (art. 42 Cost.)!

La retorica dannunziana si metteva invece in evidenza nell’art. 14, dove si poneva in risalto che “la vita è bella e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intero dalla libertà, in modo da inventare la propria virtù per ogni giorno ed offrire ai suoi fratelli un nuovo dono, nel quadro di quel lavoro che è misura di tutte le cose ed adorna il mondo”.
Qualcosa di simile si risentirà solo allo scoccare del mitico ‘68: chi non rammenta lo slogan “l’immaginazione al potere!”?

Nella Carta si riconosceva anche e chiaramente, la perfetta uguaglianza giuridica femminile, anche in termini di elettorato attivo e passivo.
È il caso di aggiungere che l’emancipazione giuridica delle donne diventava totale con il loro obbligo di partecipare alla difesa dello stato: un dovere di tutti i cittadini maggiorenni, come avviene oggi in Israele!

Il diritto all’assistenza ed alla previdenza, non disgiunto da quello ad una retribuzione “equa e bastevole a ben vivere”, costituiva un ulteriore salto di qualità: mai la legge di uno stato aveva accolto in pieno il principio della solidarietà generale che sarebbe stato recepito più tardi con l’istituzione dell’INPS e istituti simili in altri paesi.

Nella Carta c’erano altri nuovi istituti come il diritto d’iniziativa di legge popolare riconosciuto ad almeno un quarto degli elettori o come il principio di responsabilità civile e penale a carico dei pubblici ufficiali e dei magistrati.
Lo stesso elemento di novità poteva ritrovarsi nella “Corte della Ragione”, chiamata a dirimere le controversie fra i poteri dello stato, con funzioni analoghe a quelle delle Corti costituzionali, e nel diritto di referendum abrogativo, attribuito ad un quarto del corpo elettorale; e in quelli di petizione o di revoca degli incarichi governativi.

La divisione dei poteri, era chiara nelle attribuzioni delle competenze legislative, esecutive e giudiziarie.

Le prime erano affidate al Consiglio degli Ottimi ed a quello dei Provvisori, nonché all’Arengo, che li riuniva in seduta comune annuale, con l’obbligo funzionale di dibattiti improntati a “brevità concisa” in guisa da evitare le lungaggini tipiche di molte esperienze parlamentari.

L’esecutivo era affidato a sette Rettori, con funzioni presidenziali di “primus inter pares” per il responsabile degli Esteri.
Tutti i cittadini erano eleggibili a detti incarichi, ma si trattava di funzioni a tempo predefinito: i Rettori restavano in carica per un anno, erano rieleggibili solo per un secondo mandato e potevano essere revocati.

Continua…

Lino Predel non è un latinense, è piuttosto un prodotto di importazione essendo nato ad Arcetri in Toscana il 30 febbraio 1960 da genitori parte toscani e parte nopei.
Fin da giovane ha dimostrato un estremo interesse per la storia, spinto al punto di laurearsi in scienze matematiche.
E’ felicemente sposato anche se la di lui consorte non è a conoscenza del fatto e rimane ferma nella sua convinzione che lui sia l’addetto alle riparazioni condominiali.
Fisicamente è il tipico italiano: basso e tarchiatello, ma biondo di capelli con occhi cerulei, ereditati da suo nonno che lavorava alla Cirio come schiaffeggiatore di pomodori ancora verdi.
Ama gli sport che necessitano di una forte tempra atletica come il rugby, l’hockey, il biliardo a 3 palle e gli scacchi.
Odia collezionare qualsiasi cosa, anche se da piccolo in verità accumulava mollette da stenditura. Quella collezione, però, si arenò per via delle rimostranze materne.
Ha avuto in cura vari psicologi che per anni hanno tentato inutilmente di raccapezzarsi su di lui.
Ama i ciccioli, il salame felino e l’orata solo se è certo che sia figlia unica.
Lo scrittore preferito è Sveva Modignani e il regista/attore di cui non perderebbe mai un film è Vincenzo Salemme.
Forsennato bevitore di caffè e fumatore pentito, ha pochissimi amici cui concede di sopportarlo. Conosce Lallo da un po’ di tempo al punto di ricordargli di portare con sé sempre le mentine…
Crede nella vita dopo la morte tranne che in certi stati dell’Asia, ama gli animali, generalmente ricambiato, ha giusto qualche problemino con i rinoceronti.

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