Il mosaico è una tecnica che risale ad un periodo molto antico, che si perde nella notte dei tempi.
Verso la fine del XII sec. si diffuse in Italia un tipo di mosaico, detto Cosmatesco.
Ravenna, insieme a Roma, a Venezia e ad alcune località della Sicilia detenevano praticamente il dominio dell’arte musiva, nel senso che sono state e sono città fortemente segnate nella loro storia artistica dall’esperienza del mosaico.
La decorazione cosmatesca era ispirata chiaramente a motivi arabi, il mosaico era formato da disegni geometrici molto colorati che richiedevano un impegno non comune per la realizzazione.
Cosmati è in realtà un termine generico, dovuto al fatto che i marmorari romani indicavano se stessi come Cosma o Cosmatus firmando le loro opere.
Successivamente si sono potuti identificare due artisti diversi che appartenevano a due distinte famiglie: Cosma di Jacopo di Lorenzo, attivo almeno dal 1210 al 1231, e Cosma di Pietro Mellini, attivo a partire almeno dal 1264.
Cosma di Jacopo di Lorenzo è uno dei marmorari più noti della famiglia di Tebaldo Marmoraro, che era il capostipite di questa famiglia, attivo tra il 1100 e il 1150, e che raccolse le più grandi committenze da parte del papato.
I veri Cosmati erano “Doctissimi Magistri Marmorari Romani” che operarono in Roma e nel territorio del Patrimonio di San Pietro, spingendosi anche oltre.
La famiglia, originata da Tebaldo Marmoraro, che iniziò la sua opera nei primi decenni dell’anno Mille, proseguì con il figlio Lorenzo, probabilmente dalla metà del XII secolo in poi, e dai figli di quest’ultimo Iacopo e Cosma che furono gli artefici più famosi tra i Cosmati, operanti tra il 1185 e il 1231, a cui seguirono i relativi figli Luca e Iacopo II, detto anche alter, per distinguerlo dal nonno, e che di certo operarono fin verso la metà del XIII secolo.
Altri artisti, che appartenevano ad altre famiglie, operarono parallelamente nello stesso periodo: come quella di Magister Paulus (1100) a cui seguirono Giovanni, Pietro, Angelo e Sasso, e poi Nicola, il figlio di Angelo, e Iacopo, figlio a sua volta di Nicola.
La famiglia di Pietro Mellini, sin dal 1200, si mise in luce con il figlio Cosma II e i figli di questi: Iacopo III, Giovanni, Deodato, Pietro e Carlo.
Va ancora lricordata la famiglia dei Ranuccio, discendenti da un poco noto Giovanni Marmoraro, all’interno della quale si distinsero i maestri Pietro e Nicola e i figli di quest’ultimo, Giovanni e Guittone.
Uno dei nomi più famosi, tra gli artisti di famiglia diversa, che collaborarono con i Cosmati è quello dei Vassalletto, di cui si ignora il nome del capostipite, mentre è famoso Pietro Vassalletto ed il figlio di questi, di cui è rimasto sconosciuto il nome.
Solo la famiglia di Tebaldo Marmorario sarebbe da considerare, al completo dei suoi membri, quella a cui riferirsi quando si scrive il nome Cosmati.
In senso stretto, definiti con il termine “cosmatesco”, considerato anche nelle sue più generali varianti espressive, coem cosmatesca, cosmatesche, ecc. ecc, sono infatti da intendere solo quei particolari monumenti artistici riferibili esclusivamente all’operato dei membri della famiglia di Tebaldo marmoraro e, più specificamente, in mancanza di attribuzioni certe, al periodo che inizia con Lorenzo di Tebaldo dal XII secolo.
Un punto fermo, dal quale partire per definire univocamente l’inizio dell’era cosmatesca vera e propria, può essere rappresentato dal 1185, anno in cui il maestro Lorenzo si firmò per la prima volta con suo figlio Iacopo, su un architrave nella cattedrale di Segni e di cui ci resta il reperto originale conservato nel locale Museo Archeologico.
Approdo finale della scuola potrebbe essere il 1246, che sarebbe poi l’anno della consacrazione dell’Oratorio di San Silvestro presso la basilica dei Santi Quattro Coronati, ove si vede un pavimento rimaneggiato, restaurato varie volte, ma di chiara origine cosmatesca, nello stile degli ultimi maestri Cosma e il fratello Luca.
1185-1246 è questo il lasso di tempo a cui riferire l’originale arte cosmatesca in cui splendide opere pavimentali, decorative e architettoniche videro la luce nel Lazio.
Tutti i pavimenti musivi presenti in strutture religiose dal X al XIV secolo, furono spesso erroneamente definiti “pavimenti cosmateschi”.
Forse è tempo che si cominci a fare chiarezza introducendo qualche distinzione.
Una è quella che definisce la differenza tra il periodo precosmatesco e quello cosmatesco.
La decorazione cosmatesca era ispirata chiaramente a motivi arabi e non solo bizantini, come nel periodo precosmatesco; il mosaico era formato da disegni geometrici molto colorati che richiedevano un impegno e un’abilità non comune per la loro realizzazione.
Nei secoli XII-XIII sono diversi i maestri marmorari che lavorano a Roma e nei dintorni cercando di riproporre in termini aggiornati le tradizioni architettoniche alle quali si riferiva da tempo la cristianità. Tradizioni che poco prima erano state riprese nel laboratorio che i benedettini, ai tempi (1066 circa) dell’abate Desiderio, avevano organizzato a Montecassino con l’aiuto di maestranze bizantine.
Questi artigiani del marmo erano spesso raggruppati in botteghe e famiglie e sono spesso ricordati come “Cosmati” e “Vassalletto”.
Fra i tanti artigiani c’erano comunque delle individualità interessanti come Jacopo di Lorenzo, Cosma di Jacopo e Pietro Vassalletto.
Sono comunque moltissime le opere, cibori, stipiti, rosoni, architravi, oltre che di interi pavimenti, marmi lavorati, che a Roma e dintorni testimoniano gli alti livelli artistici di questi marmorari. A Roma vanno ricordati i lavori nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura, nella chiesa di San Crisogono, in Santa Maria in Trastevere, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, in San Giovanni in Laterano e in vari altri templi. Ed in questi marmi romani non mancavano talora riferimenti egizi.
I pavimenti “cosmateschi” sono gli esempi più noti dell’inventiva artistica dei marmorari romani ma questo tipo di pavimentazione, continuava comunque le tradizioni dei mosaicisti dell’antica Roma e aveva numerosi precedenti nel Medioevo ed in molte zone della cristianità. I pavimenti cosmateschi sono dei coloratissimi tappeti marmorei la cui ricchezza, varietà e policromia contrasta con la semplicità dell’architettura delle basiliche e delle chiese romaniche in cui erano utilizzati.
Per la realizzazione di questi pavimenti furono impiegati piccoli tasselli di marmo, granito o ceramica, cavati da antichi edifici romani, disposti a creare motivi geometrici di connessione tra inserti più grandi e rotondi, spesso di porfido rosso.
Il riuso di elementi marmorei, graniti, porfidi o ceramici, permetteva di coniugare bellezza e risparmio: comprare nuovo materiale infatti era certamente più dispendioso che non utilizzare quello che era già così abbondante in città. D’altra parte alcune cave di marmo come quelle di serpentino e di porfido rosso si erano già esaurite in epoca romana e sarebbe stato dunque impossibile per i papi e la curia cardinalizia approvvigionarsene se non sottraendole ad antichi edifici.
Una delle caratteristiche della decorazione pavimentale “cosmatesca” è la sua simmetria, anche se si dovrebbe parlare di simmetrie, al plurale, poiché con accurate analisi anche di tipo matematico si è messo in evidenza il fatto che le simmetrie utilizzate dai Cosmati sono più di una.
Quando si osserva un pavimento cosmatesco si può distinguere sempre un elemento lineare che corre lungo la navata, attraversa il coro e giunge all’altare. Questo perché il pavimento non aveva solo un valore decorativo, ma veniva utilizzato anche per segnare dei percorsi all’interno della chiesa, percorsi che potevano essere seguiti in processione o da singoli.
Il pavimento così veniva ad assumere diversi significati e definiva lo spazio della navata a due livelli: il motivo lineare infatti definisce un vero e proprio corridoio che assume anche il valore di passaggio, simbolo del pellegrinaggio sulla Terra che il cristiano compie prima della sua ascensione nel regno dei cieli.
Quel motivo assumeva quindi valore di percorso salvifico, valore che nelle architetture dei secoli successivi sarà assunto pure da altri elementi.
In genere la navata centrale è occupata da un elemento lineare che può essere composto da uno o dalla combinazione di due motivi principali: la “guilloche”, in cui una serie di tondi, il cui centro è una rota, si connettono attraverso fasce intrecciate, e il “quinconce”, una composizione di quattro tondi disposti intorno a un quinto e collegati tra loro da bande intrecciate.
Della famiglia dei Cosmati si ricordano sette membri. Di essi, a realizzare nel 1231 il pavimento della straordinaria cripta del Duomo di Anagni, furono Cosma e i due figli, Luca e Jacopo.
Questa famiglia aveva dato l’avvio a una vera e propria “moda” nella decorazione pavimentale, uno stile che incontrò il gusto e soddisfece il desiderio dei papi e delle loro casate, che autorizzarono il prelievo dei marmi e delle pietre necessarie alla realizzazione di questa particolare decorazione musiva nei vari edifici romani.
Il desiderio di riutilizzare i marmi antichi non si limitò però agli anni del XII e XIII secolo, ma fu una pratica che si estese anche nei secoli successivi, tanto che nacque nei secoli uno “stile cosmatesco”, che si estese in tutta Italia e comparendo perfino in certi edifici religiosi sorti altrove in Europa, anche perché erano molti gli artigiani che uscivano da quelle vere e proprie scuole che erano le botteghe cosmatesche.
Si pensi che l’altare maggiore dell’Abbazia di Westminster, ad esempio, è decorato con un pavimento in marmo in puro stile cosmatesco, realizzato tra il 1224 e il 1227.
Accanto alla bottega dei Cosmati inoltre sorsero anche botteghe di marmorari ispirati da questo stile, che nel tempo venne utilizzato per realizzare non più solo pavimenti ma anche altari, leggii, pulpiti, colonne tortili, fonti battesimali.
Bisogna ricordare almeno l’esperienza del Magister Paulus, a sua volta discepolo di un certo Magister Christianus, attivo già nella metà del X secolo.
Il Magister Paulus diede vita a una sua bottega insieme ai suoi figli, attiva immediatamente prima di quella dei Cosmati.
A lui sono attribuiti i pavimenti della chiesa di San Clemente, quelli dei Santi Quattro Coronati, della cattedra di San Lorenzo in Lucina e della basilica di San Pietro in Vaticano e di altre chiese ancora.
Il pavimento cosmatesco diventò un elemento architettonico fondamentale nel gestire lo spazio della basilica paleocristiana dal momento in cui la basilica romana, che aveva due absidi sui lati maggiori e due ingressi sui lati minori, venne presa come modello architettonico per il tempio cristiano
La chiesa, poi, col progredire dello stile romanico, venne semplificata eliminando una delle due absidi e ponendo l’ingresso sul lato opposto dell’abside rimasto.
Era a questo punto necessario introdurre un asse di simmetria che restituisse equilibrio all’edificio e il motivo curvilineo del pavimento cosmatesco della navata centrale ha proprio il ruolo di introdurre di nuovo la simmetria speculare che era andata persa nella semplificazione della pianta basilicale.
La simmetria speculare fu poi rafforzata dal fatto che ai lati dell’elemento decorativo del pavimento della navata erano disposti specularmente dei rettangoli.
Un altro aspetto che caratterizzava i pavimenti cosmateschi era la varietà di forme che si potevano riconoscere al suo interno.
Le così dette rotae, ovvero i tondi che erano al centro delle guilloche e delle quinconce erano fette di colonne.
Poi si potevano distinguere cerchi, triangoli, quadrati, rettangoli, rombi, esagoni, ottagoni e la così detta vesica piscis, cioè un ovale appuntito che veniva a formarsi all’intersezione di due circonferenze.
Questa organizzazione geometrica nasceva spesso da motivi di ordine pratico e la tecnica utilizzata era quella di partire dal marmo bianco all’interno del quale venivano scavati gli alloggiamenti della misura e della forma esatta per accogliere poi i frammenti colorati, queste tracce erano poi riempite con un fondo cementizio nel quale venivano incastrati i frammenti in maniera tale che non sporgessero dal marmo stesso. Si partiva per questo “gioco ad incastro” dai tasselli più grandi, quindi venivano riempiti gli spazi vuoti, ricavando in essi gli alloggiamenti per le restanti tessere, andando sempre in ordine di grandezza dal più grande al più piccolo.
Osservando un pavimento cosmatesco si può così notare che la simmetria riguarda principalmente la forma e la dimensione, ma molto raramente il colore, e questo corrisponde a una particolare caratteristica dell’effetto simmetria, che appunto rende trascurabile il colore, tanto che essa potrebbe essere colta e il pavimento apprezzato per la sua bellezza anche se fosse realizzato tutto con tessere bianche e nere.
I Cosmati quindi rispondevano a una esigenza ottica precisa in cui l’importante era riempire lo spazio con una certa forma piuttosto che con un dato colore, e questo introduceva nei pavimenti cosmateschi un altro livello di simmetria che è detta ‘simmetria di similitudine’.
Questa esigenza ottica fece sì che gli spazi restati vuoti venivano riempiti via via con forme simili di scala più piccola.
E’ strano a dirsi, ma la definizione di “stile cosmatesco”, è assai tarda: fu in realtà un’invenzione di Camillo Boito, fratello di Arrigo, il quale, nel 1860, pubblicò un articolo, dal titolo “Architettura Cosmatesca”, in cui lanciò questa sorta di metonimia, con cui, il nome di una famiglia di marmorari divenne il simbolo dell’esperienza artistica che si sviluppo per oltre due secoli e che coinvolse numerose botteghe artistiche, a volte in concorrenza, a volte in collaborazione su progetti comuni.
Eppure degli artefici di tutta questa elevata e particolare espressione artistica non ci resta nemmeno un volto, né scolpito, né raffigurato in qualche documento. Non ci resta nessuna notizia sulle loro vicende familiari, sulla loro vita sul loro carattere e sulle loro disavventure professionali e personali.
Nemmeno un volto, si è detto, e in alcuni casi nemmeno il nome di coloro che hanno fatto brillare la fede per oltre un secolo attraverso quella minuziosa arte dell’opus tessellatum e dell’intarsio di paste vitree ed oro.
Se non fosse stato per gli attestati di paternità con i quali ci hanno tramandato almeno i loro nomi, non avremmo mai avuto la possibilità di pronunciare la parola Cosmati, né di conoscere gli artefici di un’arte, quella cosmatesca, che dopo quasi mille anni brilla ancora di luce propria.
Bibliografia:
Creti Luca, I Cosmati a Roma e nel Lazio, Edilazio, 2002;
Creti Luca, In Marmoris arte periti: La bottega cosmatesca di Lorenzo tra il XII e il XIII secolo, Ed. Quasar, 2009;
Bassan Enrico, Itinerari Cosmateschi: Lazio e dintorni, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2006;
Claussen Peter Cornelius, Magistri Doctissimi Romani, Stuttgart, 1987;
Nicola Severino; vari libri sull’arte cosmatesca: editori vari.